Del: 30 Maggio 2021 Di: Riccardo Garosi Commenti: 0

Negli ultimi anni l’immigrazione è stato uno dei temi più affrontati e dibattuti da parte dell’opinione pubblica, ma che cosa sappiamo della migrazione ambientale? In Italia solo negli ultimi anni la questione è stata affrontata a livello politico e giuridico. Prima di tutto è importante però capire che cosa intendiamo per migrazione ambientale. Nel 1970, sulla rivista scientifica Science, il fondatore del WorldWatch Institute Lester Brown utilizza per primo il termine “rifugiati ambientali”, ma tutt’oggi non si è ancora trovato un accordo che converga su una definizione univoca. 

La definizione di “rifugiati ambientali” è resa popolare dal Presidente del Programma ambientale delle Nazioni Unite (UNEP) El Hinnawi in un rapporto del 1985, che definisce i rifugiati ambientali come «persone che sono state costrette a lasciare il loro habitat tradizionale, temporaneamente o permanentemente, a causa di un marcato evento ambientale (naturale o innescata da persone) che ne ha compromesso l’esistenza o ha seriamente compromesso la qualità della loro vita».

Nel 2011 sono state delineate tre diverse categorie di migranti ambientali. 

GliEnvironmental emergency migrants sono persone sfollate a causa della rapidità di un evento climatico, le quali fuggono al fine di salvaguardare la propria vita. Il fattore ambientale è quindi quello principale. Esempi di questo tipo sono uragani, tsunami o terremoti. In molti di questi casi le persone colpite non restano nei propri Stati.

Gli Environmentally forced migrants sono una categoria di soggetti che devono lasciare la loro casa originaria ma non in maniera rapida come gli Environmental emergency migrants. Talvolta le persone non hanno la possibilità di ritornare a casa per motivi dovuti alla perdita delle loro terre o a causa di un estremo degrado per l’innalzamento del livello del mare. In questi casi non è facile stabilire quale fattore tra quello ambientale e quello socioeconomico sia il preminente.

Infine, gli Environmentally motivated migrants sono le persone che migrano poiché vivono in un contesto in costante deterioramento e per questo decidono di prevenire gli effetti disastrosi che potrebbero avvenire. Migrare in questo caso non è l’ultima scelta a disposizione o una risposta all’emergenza. Fattori socioeconomici possono giocare un ruolo dominante, e la migrazione appare come una strategia per evitare ulteriore degrado dei mezzi di sussistenza.

Come si può notare, sono molti i termini e i concetti che si possono ricondurre alla figura del “migrante ambientale”. La motivazione per cui è difficile trovare una definizione univoca a questo fenomeno è il fatto che è difficile isolare totalmente il fattore ambientale da altri fattori socioeconomici quando parliamo di migrazione.

Dal punto di vista del diritto internazionale, i profughi ambientali sono una categoria pressoché inesistente, tuttavia di recente in Italia sembra che siano stati compiuti dei passi in avanti. 

Il 16 febbraio 2018, con un’ordinanza che rimarrà nella storia, la giudice Roberta Papa ha riconosciuto la protezione umanitaria nei confronti di un cittadino bangladese che, a seguito di un’alluvione, aveva perso il proprio terreno agricolo ed è stato costretto a indebitarsi. In Italia si tratta di uno dei primi casi di riconoscimento di protezione umanitaria per disastri naturali. L’Ordinanza affronta in maniera preliminare la materia riguardante il riconoscimento della protezione internazionale, andando ad esaminare le figure che riguardano lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria; la seconda parte della pronuncia si concentra sul diritto alla protezione umanitaria.

La giudice si focalizza inoltre sulla clausola di salvaguardia presente all’art. 5, comma 6, del d. lgs. n. 286/1998, che riguarda i «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano», che vanno a legittimare il rilascio del permesso di soggiorno superando eventuali condizioni ostative al rilascio stesso. Il Tribunale continua indicando i disastri naturali o ambientali tra i motivi di carattere umanitario che vanno a legittimare il rilascio del permesso di soggiorno. 

A fondamento del rilascio del permesso, il Tribunale opera un accertamento sulla reale condizione del Bangladesh collegato alla particolare situazione del cittadino bangladese in questione. Il risultato è una situazione di crisi ambientale fortemente connessa a fattori antropici, tra cui il cambiamento climatico che provoca l’innalzamento del livello dei mari e delle acque, le deforestazioni di massa e il fenomeno del land grabbing, ossia del furto delle terre che è andato espandendosi nel corso del primo decennio del ventunesimo secolo.

Anche la politica italiana ha deciso di affrontare il tema. 

Nell’Ottobre del 2020 infatti è stato emanato il decreto-legge n. 130 che prevede una parziale modifica dei decreti sicurezza. Sono state apportate delle modifiche al decreto legislativo n. 286/1998, in particolare all’articolo 6 dopo il comma 1 è stato inserito il comma 1-bis che prevede la conversione in permesso di soggiorno per motivi lavorativi, ove siano presenti i requisiti, numerosi permessi di soggiorno, tra cui quello per calamità.

Queste nuove ipotesi di conversione permetteranno di non vanificare i percorsi di integrazione già iniziati, consentendo di fermare l’incremento delle persone irregolari. In particolare, in merito al permesso di soggiorno per calamità naturali, sono state allargate le maglie del permesso di soggiorno e sembra avvicinarsi alla possibilità di regolare i migranti climatici; infatti, il presupposto per la concessione del permesso non è più la situazione di calamità eccezionale e contingente del Paese d’origine, ma la semplice esistenza di una situazione di “gravità”, perciò anche non transitoria.


Illustrazione di Michele Bettollini

Riccardo Garosi
Politico in erba, mi piace parlare di sostenibilità in maniera trasversale. Scrupolosamente attento all'ambiente da far invidia a Greta Thunberg. Grande amante del cibo.

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