Del: 5 Maggio 2021 Di: Erica Ravarelli Commenti: 0

Esiste un Paese in cui le proteste pacifiche vengono represse a colpi di manganello. Esiste un paese in cui chi rivendica il diritto di eleggere i propri rappresentanti tramite elezioni libere e competitive rischia la vita. Esiste un paese in cui la censura è all’ordine del giorno, in cui i giovani sono troppo impegnati a difendere la democrazia e il diritto all’istruzione per godersi la spensieratezza dell’adolescenza. Quel paese è Hong Kong, e la sua storia meriterebbe un livello di attenzione istituzionale e mediatica che oggi, in piena pandemia, non gli è concesso.

In questo articolo cercheremo di ricostruire le fasi principali delle proteste che hanno bloccato le città per settimane, partendo dal movimento degli ombrelli fino ad arrivare alla legge sulla sicurezza nazionale.

Dal punto di vista geografico, parlare di Hong Kong significa parlare di un territorio situato nel sud-est della Cina, che comprende l’omonima isola ma anche la penisola di Kowloon e altre centinaia di isole (circa 236). Dal 1997, cioè da quando non è più una colonia britannica, Hong Kong è una Regione amministrativa speciale della Cina, ma gode di una speciale indipendenza grazie a un accordo tra Londra e Pechino siglato nel 1984: autonomia amministrativa e giudiziaria, libertà di informazione e di istruzione sono solo alcune delle concessioni che rendono Hong Kong un territorio del tutto peculiare all’interno del regime dittatoriale cinese. In questa sorta di oasi nel deserto, tuttavia, l’acqua non è inesauribile: questo particolare assetto, a cui il primo ministro Cinese Deng Xiaoping si riferì con la formula un paese, due sistemi, ha una data di scadenza, fissata per il 2047. E Xi Jinping non sembra essere intenzionato ad attendere.

Le prime proteste risalgono al 2014 e hanno come principale obiettivo quello di ottenere il suffragio universale: sebbene dal punto di vista formale le elezioni potrebbero apparire competitive in quanto possono presentarsi molti partiti, infatti, il capo dell’esecutivo è in realtà scelto da un ristretto numero di persone che rispondono a Pechino. Gli accordi prevedevano che il superamento di questo sistema di nomina sarebbe avvenuto entro il 2017, ma nel 2013 il partito comunista cinese annunciò una nuova legge elettorale ancora più antidemocratica.

In quel momento i cittadini di Hong Kong capirono che il suffragio universale stava diventando una meta sempre più lontana, ma non rinunciarono a combattere per ottenerlo.

Il nome delle proteste deriva dallo strumento usato dai manifestanti per proteggersi dai gas lacrimogeni usati dalle forze dell’ordine: gli ombrelli, appunto. Il “volto della protesta” è senza dubbio Joshua Wong, un ragazzo di 17 anni che, con il suo movimento studentesco Scholarism e successivamente con il suo partito Demosisto, si è battuto per ottenere elezioni democratiche e per sabotare il programma di istruzione nazionale cinese: «il sistema e la scuola ci insegnano che se diventiamo ragionieri o medici avremo un futuro di successo, eppure, invece di chiedere alla società la definizione di successo, io voglio sapere perché non posso scegliere che cosa è importante per me e che cosa è importante per la società […] costi quel che costi non possiamo scaricare questo fardello sulla prossima generazione: questa generazione deve completare la sua missione».

Sono queste alcune delle dichiarazioni, presenti nel documentario Netflix Joshua: Teenager vs. Superpower, di Wong, un giovane che non ha esitato a esporsi in prima persona, arrivando allo sciopero della fame e vivendo tra carcere e occupazioni per tutta la durata delle proteste (il suo non fu l’unico arresto: il totale si aggira intorno a quota 1000). I manifestanti continuarono ad occupare strade e piazze per 79 giorni, ossia fino all’11 dicembre 2014, quando furono costretti a ritirarsi senza aver ottenuto ciò per cui si battevano. 

Joshua Wong nella copertina di Time di ottobre 2014

La tensione è riesplosa nel 2019, quando i cittadini di Hong Kong sono tornati in piazza per protestare contro un emendamento alla legge sull’estradizione.

Se questa piccola ma significativa modifica fosse stata approvata da Pechino, gli abitanti di Hong Kong che si fossero macchiati di alcuni gravi reati come l’omicidio e lo stupro sarebbero stati sottoposti a processo in Cina, dovendo dire addio ad un sistema giudiziario imparziale e non politicizzato. Nonostante non fosse nato per punire eventuali dissidenti politici cinesi rifugiatisi nella regione amministrativa speciale, bensì per trasferire a Taiwan un cittadino di Hong Kong accusato di aver ucciso la fidanzata mentre si trovava in vacanza sull’isola, fu proprio questo il rischio a cui gli ex membri del movimento degli ombrelli si sentirono esposti quando decisero di tornare a farsi sentire.

Dopo mesi di proteste, i manifestanti hanno ottenuto il ritiro della proposta di legge, ma questo non significa che si possa parlare di ‘lieto fine’. Il motivo è molto semplice: da una parte, il prezzo da pagare è stato altissimo, 51 feriti, 100 arresti (tra cui il magnate dell’editoria Jimmy Lai, proprietario del tabloid più letto di Hong Kong) e un diciottenne colpito al torace da un proiettile sparato dalla polizia, dall’altra, soltanto una delle cinque rivendicazioni è stata accolta dalla governatrice Carrie Lam, il ritiro del termine ‘rivoltosi’ per etichettare i manifestanti, il rilascio dei protestanti arrestati, l’istituzione di una commissione d’inchiesta sulla condotta della polizia e il suffragio universale rimangono delle vane utopie. 

A pochi mesi di distanza dal ritiro della legge sull’estradizione, il 30 giugno 2020, la situazione si è aggravata ulteriormente a causa dell’imposizione della legge sulla sicurezza nazionale, che punisce con l’ergastolo chiunque commetta atti di «sovversione, secessione, terrorismo e collusione con forze straniere», reati così vagamente definiti da esporre qualunque manifestante al rischio di finire in carcere per il resto della sua vita. È importante sottolineare che l’iter legislativo seguito per l’approvazione di questa legge è stato eccezionalmente rapido e che la governatrice Carrie Lam ha dichiarato di non esserne stata messa al corrente: tutte prove dell’urgenza con cui Pechino ha agito nel tentativo di riportare l’ordine a Hong Kong, anche a costo – e, anzi, probabilmente proprio con l’obiettivo – di cancellare per sempre la formula “un paese, due sistemi”. 

In seguito all’entrata in vigore della legge, Joshua Wong e i suoi compagni di lotta Agnes Chow e Ivan Lam sono stati condannati a pene che vanno dai sette ai tredici mesi di detenzione, le elezioni che avrebbero dovuto tenersi il 6 settembre sono state cancellate e molti librai hanno deciso di ritirare i volumi che avrebbero potuto esporli alle sanzioni previste dalla legge sulla sicurezza nazionale. Se è vero che la Cina sembra essere riuscita a schiacciare Hong Kong dopo un lungo braccio di ferro, è vero anche che alcuni manifestanti come Wong non sono intenzionati a fermarsi: «questa non è la fine della battaglia»,ha dichiarato Joshua. La sua determinazione lascia acceso un barlume di speranza nell’incerto futuro di Hong Kong.

Erica Ravarelli
Studio scienze politiche a Milano ma vengo da Ancona. Mi piace scrivere e bere tisane, non mi piacciono le semplificazioni e i pregiudizi. Ascolto tutti i pareri ma poi faccio di testa mia.

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