«La musica è una fortuna e la nostra vera terapia». A pronunciare queste parole fu un uomo malato di una grave malattia neurodegenerativa, ma con tanta forza da aver portato il proprio nome ad essere celebre su scala internazionale: Ezio Bosso, musicista, compositore e direttore d’orchestra, si è spento ormai un anno fa, all’età di 48 anni.
Nato nel 1971, Bosso si avvicina alla musica a soli quattro anni studiando solfeggio. Il suo talento e il suo genio si rivelano ben presto: brillante contrabbassista, già a sedici anni debutta come solista in Francia, girando poi l’Europa in orchestra.
La fama a livello internazionale arriva, però, nei primi anni 2000: con la colonna sonora di Io non ho paura e Il ragazzo invisibile, per cui riceve due nomination ai David di Donatello, si afferma come compositore di musica da film anche nel Regno Unito ed in Europa, esibendosi poi come sia come direttore d’orchestra sia come musicista, nei maggiori teatri mondiali.
Nel 2011 la scoperta della malattia neurodegenerativa che gli compromette la capacità di camminare, di muoversi. Come lui stesso ammette, la musica diventa non solo la sua ragione di vita, ma soprattutto la sua terapia. Nel 2016 si esibisce sul palco di Sanremo al pianoforte in una delle sue musiche, dal titolo Following a bird. Continua a dirigere, suona il pianoforte, a cui a causa della malattia, dovrà rinunciare definitivamente nel 2019.
Non rinuncia mai alla musica, nemmeno in «quel tempo senza nome», come lui definiva il lockdown del marzo 2020.
David Romano, primo violino presso il Sestetto Stradivari e secondo violino presso l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, nonché concertista nei teatri di tutto il mondo e caro amico del maestro Bosso, ci testimonia, in un’intervista, la forza d’animo che ha caratterizzato la vita del compositore di Rain e Ocean, solo due delle numerose opere che avrebbero commosso il mondo intero.
Iniziamo dal principio: come hai conosciuto il maestro Bosso?
L’ho conosciuto nel 1996, a Roma, quando venni chiamato per far parte di un’orchestra d’archi, destinata a girare l’Europa. Lui era l’unico contrabbasso. Era molto diverso da come lo avete conosciuto: aveva capelli lunghissimi, neri, vestiva solo di pelle nera – era, diciamo, un mix tra un punk e un metallaro. Da lì è nata un’amicizia che poi è andata avanti a fasi alterne: Ezio a un certo punto lascia Roma, si trasferisce a Londra, quando comincia ad avere successo in ambito cinematografico. Stiamo parlando dei primi 2000 e, con Io non ho paura, Ezio diventa conteso anche per la musica da film. Subito dopo il rientro sulle scene, nel 2013 io faccio un tour sostituendo un violinista del suo trio e facciamo concerti. Da lì in poi, praticamente, non ci siamo più lasciati.
Ezio ha fatto parte della mia vita professionale sotto più profili: è sono stato ospite e docente del Festival in Sicilia, ad Acireale, dove poi è ritornato a dirigere l’orchestra nel 2015, dopo la malattia. Nel 2016 c’è stato poi il boom della sua fama, portato dalla sua presenza a Sanremo di quell’anno. Io ho continuato a suonare con lui in trio fino a quando non ha voluto fondare la sua orchestra, con cui io ho suonato parecchie produzioni da primo violino. Il nostro rapporto è stato un pentagramma doppio, legato tra la musica e l’amicizia; come, del resto, quasi tutta l’esperienza di Ezio racconta. Ha sempre avuto attorno persone che fossero personalmente suoi amici e ottimi musicisti, ma una dimensione non era mai sganciata dall’altra. Quando lavoravi con lui, finivate a cena insieme: non esisteva una figura professionale e una personale.
Dicevi del festival di Villa Pennisi ad Acireale: un’esperienza che avete vissuto insieme per diversi anni. Lo scorso anno l’hai affrontata per la prima volta senza di lui. Ci racconti com’è stato prepararsi a questa prospettiva e com’è andata?
Decidere di organizzare il festival senza Ezio è stata proprio la cosa difficile. O meglio, io credevo che così fosse. Ciò che è risultato complesso, invece, è stato trovare un sistema per poterlo omaggiare senza che il risultato si rivelasse egoreferenziato, ma, soprattutto, senza farne sentire l’assenza; la sentivamo tutti, addosso. Abbiamo cercato di esibire solo la sua musica, solo le sue parole, o le parole di chi lui amava – in particolare Emily Dickinson. E’ stata un’esperienza molto dura: tutti, su quel palco, conoscevano Ezio, tutti avevano suonato con lui. Buttandola un po’ sul ridere, potrebbe quasi essere stata una sorta di seduta di psicoterapia di gruppo: eravamo tutti presi e compresi in ciò che stavamo passando.
Ezio adorava parlare durante i concerti: era una cosa che faceva sempre. Adorava abbattere la barriera tra palcoscenico e pubblico; adorava creare un ponte che fosse fatto non soltanto di parole tese a spiegare quello che si sarebbe andati ad ascoltare, ma creare una fortissima condivisione che si trasforma in fibrillazione. Ci divertivamo parecchio a fare questo gioco: la parola condivisione, in italiano, generalmente comporta l’immagine di una torta da dividere per più persone; ognuno ha un pezzo piccolino di quella che era una cosa più grande. Al contrario, con la musica, quel tipo di condivisione si trasformava in moltiplicazione di emozioni, di sentimento. Perché alla fine dal palcoscenico, noi reagiamo soprattutto a chi è seduto in platea. Motivo per cui i concerti in streaming, a cui siamo ora costretti, sono per sopravvivenza, ma la sopravvivenza non ha niente a che vedere con l’arte.
L’ultima sera è stata la più dura. Finito quello, noi abbiamo avuto modo di ricominciare a pensare all’edizione di quest’anno, a come andare avanti senza di lui. Per le prossime edizioni, l’idea è di avere comunque sempre una serata dedicata ad Ezio: la sua musica è il sistema che noi abbiamo per portare avanti la sua memoria.
Per quanto riguarda la sua direzione, com’era una prova d’orchestra insieme a lui? E sul palco?
C’erano due elementi che vivevano contestualmente: la birretta e il maestro. Aveva un rapporto con noi di “primus inter pares”, per cui la musica è l’elemento che ci teneva insieme. Ma, come lui era solito dire, se la musica è una mappa, c’è bisogno di qualcuno che guidi e lui era la nostra guida: le prove erano iper-dettagliate, iper-concentrate. Era un tutt’uno con quello che faceva. Non c’è mai stato un attimo da parte di Ezio di distrazione che non fosse funzionale alla musica. Ezio sorrideva perché la musica sorrideva. Sì, durante le prove c’era la battuta, la dimensione anche rilassata. Ma era un tutt’uno. Non c’era separazione.
Lavoravamo fino al risultato ottimale e fino allo sfinimento, ed è buffo da dire – lui era malato: chi si sarebbe dovuto stancare prima era lui. L’energia che lui era in grado di ricevere dalla musica e riflettere nel lavoro era qualcosa che gli permetteva, in un certo senso, di non stancarsi mai. Io lo mettevo sulla sedia all’inizio prova, poi alla fine lo tiravo giù. Per lui la musica, il lavoro, era di vitale importanza; non a caso dico “vitale”. Oggettivamente, nel momento in cui gli è stato impedito di lavorare, la distanza che aveva tra il suo sentire e il suo essere malato è andata ad amplificarsi. Lui era malato, ma si sentiva vivo come poche altre persone.
Volevo proprio chiederti qualcosa in merito: il periodo Covid è stato duro per i musicisti.
Io sono stato al telefono con Ezio tutti i giorni, anche 2/3 ore al giorno durante il lockdown. Lottava: aveva milioni di progetti; la sua grande rabbia era legata al fatto durante il lockdown noi non fossimo stati identificati come un “comparto produttivo”, ma come “comparto fruitivo”. Quindi siccome tu non puoi uscire di casa, io non posso lavorare; io lavoro per farti stare bene, di conseguenza non ho nessuna possibilità di lavorare. Come poi abbiamo visto chiaramente, le omologazioni in streaming, le operazioni di registrazione fatte con cura, con dovizia e controlli sarebbero state possibili anche all’epoca: non si capiva perché non si potesse cominciare subito a fare i concerti in streaming. Era furibondo.
Ezio è morto il 14 maggio. Noi ci saremmo dovuti vedere a Roma per registrare le Metamorfosi di Strauss, l’ultima cosa che io ho suonato con lui a Milano. La sua missione era proprio quella: organizzare qualcosa perché noi potessimo lavorare, produrre – in termini di Pil la cultura produce moltissimo in Italia. La mia vita professionale è fatta di prove e le prove sono il percorso per arrivare ad una performance; questa performance ha come risultato il concerto. Nel momento in cui tu mi vieti di provare, stai uccidendo quello che è il mio modo di vivere. Io non provo a casa da solo: io provo la mia parte che deve andare a fondersi a qBuella di altri per produrre un concerto in streaming, o un jingle per la pubblicità.
La nostra industria poteva andare avanti. Quella di Ezio in proposito è stata una lotta costante e quotidiana. Ecco perché Ezio era furioso, ma come tutte le volte essere arrabbiati, per lui, non era mai una rabbia fine a sé stessa: aveva già in testa che cosa fare appena fossimo potuti uscire. Ironia della sorte, lui è morto il 14, noi siamo stati liberati 18 maggio.
Cosa lascia il Maestro a tutti noi?
Ezio è stato in grado di essere uno dei più grandi contrabbassisti d’Italia, ha scritto musica per il film. Dopodiché è riuscito a diventare pianista, suo malgrado: lui suonava in trio, non era pianista. Suonava solo le sue musiche per scelta, perché sapeva di non essere un pianista.
Anziché citare le sue frasi, quello che invece, secondo me, bisognerebbe osservare è la sua volontà, la forza, la sua intelligenza, la sua passione. Come è riuscito a far fronte ai volti della Sorte. Credo che questa sia la vera lezione che ci ha lasciato.