
«L’ombrello: quest’oggetto straordinario che risolve il problema di non bagnarsi, quindi di farla in barba al Padreterno». Lo disse una volta l’architetto, urbanista e designer Ludovico “Vico” Magistretti (1920-2006) a un intervistatore che gli domandava quale fosse la più importante opera di design mai realizzata.
La nuova mostra della Triennale Vico Magistretti. Architetto milanese, che segna la sua riapertura dalla chiusura di febbraio, è un vero e proprio omaggio all’uomo che forse più di tutti riuscì a incarnare il prototipo di eleganza e raffinatezza minimale, imprimendo, nel corso di quasi cinquant’anni di carriera, un’indelebile impronta nella storia del gusto tecnico-industriale in Italia. Come ha detto Stefano Boeri (presidente della Triennale e organizzatore della mostra) durante l’inaugurazione: «Magistretti è tra i principali artefici di quella storia straordinaria che, dal secondo dopoguerra, grazie al fecondo dialogo tra progettisti e imprenditori illuminati, ha proiettato il design italiano da Milano nel mondo intero».
Figlio d’arte (il padre Pier Giulio fu tra i progettisti dell’Arengario di piazza Duomo), Vico si laureò al politecnico di Milano seguendo i corsi di grandi architetti meneghini come Piero Portaluppi e Gio Ponti, ma durante gli anni della guerra, tra gli sfollati in Svizzera, ebbe l’occasione di studiare al Champ Universitarie Italien di Losanna sotto l’egida di Ernesto Nathan Rogers, maestro del modernismo e tra i fondatori dello studio BBPR che progettò la celebre torre Velasca a Milano, da cui fu profondamente influenzato.
La mostra, aperta dall’11 maggio al 12 settembre 2021, è curata da Gabriele Neri con la Fondazione Vico Magistretti, che dal 2010 si occupa dell’omonimo studio-museo di via Conservatorio e del relativo archivio. Proprio da questa fonte proviene gran parte dei pezzi in esposizione, integrati da ulteriori materiali in arrivo da aziende e istituzioni: sono circa 150 disegni e schizzi, e poi fotografie, modellini originali e prototipi. L’allestimento di Lorenzo Bini, poi, è assolutamente degno di nota.
Il percorso progettuale di Magistretti è raccontato, per la prima volta in maniera organica, dagli esordi negli anni della ricostruzione fino alla maturità, mettendo in scena non solo gli oggetti di design ma anche i progetti architettonici.
Per evidenziare la sua grande ecletticità, gli spazi espositivi, che interagiscono con le opere stesse, sono divisi in tre settori ognuno dei quali sta a simbolizzare i tre principali archetipi dell’arredo casalingo: un enorme tavolo al centro, altissimi scaffali ai quattro lati e, a sovrastare l’ingresso, una grande cappa da cucina, tutti e tre gli elementi, ovviamente, dipinti del colore che rese tanto caratteristico e inconfondibile lo stile di Magistretti.
Il fil rouge seguito dalla mostra, infatti, in questo caso eccede la metafora, perché è proprio il colore rosso a evidenziare le connessioni tra le opere del suo percorso artistico. Il rosso era il colore preferito del maestro nelle grandi scelte così come nei piccoli vezzi, ad esempio quello di indossare solo calzini di questo colore. Come spiega il curatore, questa è una sua costante, sia nei lavori di architettura che di design: da un lato era il rosso Mondrian, un rosso d’avanguardia, che poteva svecchiare un’abitazione borghese, dall’altro il rosso mattone della tradizione costruttiva lombarda.
La convivenza di modernità e classicità, sperimentazione e consuetudine, appresa da Nathan Rogers, fu proprio una delle polarità intorno a cui si è costruito il percorso artistico di Magistretti, il quale si impegnò nella progettazione parallela di dimore alto borghesi, come la bellissima Casa Arosio sulla pineta di Arenzano, e di edilizia popolare soprattutto nel Dopoguerra con gli interventi nei quartieri milanesi INA Casa e QT8, in cui progettò la chiesa di Santa Maria Nascente dalla peculiare pianta circolare.
Nonostante il grande amore che lo mantenne sempre legato alla sua città natale, Vico ebbe anche una certa apertura internazionale, a partire dai corsi che tenne al Royal college of Art a Londra, durante i quali ebbe modo di formare una nuova generazione di designer come Konstantin Grcic e Jasper Morrison (entrambi presenti in mostra con un omaggio al loro maestro), fino ai suoi lavori in Giappone, tra cui spicca la Casa al mare Tanimoto (Tokyo), in cui sono evidenti i richiami alla tradizione nipponica.
Altra polarità di Magistretti fu quella che riguarda la sua doppia professionalità di architetto e di designer in cui però semplicità, eleganza e genio, i tre ingredienti essenziali del suo agire artistico, rendono il suo operato in ogni ambito coerente e grandemente riconoscibile.
A partire dagli anni ’60 intensificò la sua attività di designer con la progettazione di arredi e oggetti divenuti ormai “classici” come la sedia Carimate per Cassina con seduta in vimini ispirata al mondo contadino, talmente iconica da essere immortalata in una natura morta di Renato Guttuso. Inoltre la vittoria di ben tre Compassi d’oro (nel ‘66,’77 e ‘94) tra cui uno alla carriera, hanno reso alcune delle sue creazioni notissime anche al grande pubblico, come la lampada Eclisse per Artemide, che mette insieme l’antica tecnologia delle lampade dei minatori con un design futuristico da esplorazione spaziale, o la lampada Atollo per Oluce, capolavoro di sintesi ed eleganza, o ancora, il divano Maralunga per Cassina, tra i primi con sedile reclinabile e una silhouette davvero iconica.
Vico la vedeva proprio così, il suo desiderio era quello di riuscire a creare oggetti e strutture architettoniche che impattassero realmente nella vita delle persone e che lo facessero nella maniera più semplice e naturale possibile, in una sintesi minimale di eleganza e utilità, proprio come l’ombrello. «Questa è la bellezza per me: la semplicità, che è la cosa più complicata al mondo». Rimarrà a lungo, oltre alla sua grande produzione architettonica e di design dal cuore di Milano fino al capo opposto del globo, la sua personalissima visione dell’arte sintetizzata in una sua nota frase: «Se, vedendo una delle mie creazioni, penserete che quell’oggetto lo avrebbe potuto fare chiunque, allora saprò di averlo fatto bene».
Articolo di Riccardo Piccolo.