Del: 28 Maggio 2021 Di: Redazione Commenti: 0

Nel 1945 Jean-Paul Sartre, presentando la rivista politico-culturale Tempi moderni scriveva: «Io scrittore è implicato qualunque cosa faccia, è in situazione nella sua epoca. Ogni parola ha i suoi echi e ogni silenzio anche». La letteratura non è mai stata completamente autonoma rispetto alla realtà, difatti da sempre continua a confrontarsi con essa, anche suo malgrado. Resta da vedere però in che modo e fino a che livello dovrebbe esserlo.

Per rispondere a questa domanda, Walter Siti, nella sua nuova raccolta di saggi Contro l’impegno – Riflessioni sul Bene in letteratura (Rizzoli) prende il discorso un po’ alla larga, perché la questione dell’engagement in letteratura, come aveva capito Sartre, sfocia inevitabilmente sul senso della letteratura stessa. Un’idea portante nel testo di Siti, molto semplice ma anche attuale,  è che un giudizio storico serio non può essere un processo che il presente fa al passato, ma deve prima di tutto misurarsi con le particolari condizioni nelle quali gli uomini hanno agito e con la loro visione del mondo. 

Ogni epoca ha una propria scala di valori che col passare del tempo finisce per non essere più condivisa. La letteratura occidentale, sin dai suoi albori, ci mette di fronte a situazioni del tutto inaccettabili secondo i criteri etici contemporanei: ad esempio, motore principale della vicenda dell’Iliade di Omero è una violenza perpetrata da due uomini, Agamennone e Achille, nei confronti di una povera giovane che si contendono, la loro schiava Briseide. Per non parlare poi del romanzo fondativo dell’epoca moderna: Robinson Crusoe di Daniel Defoe, in cui gran parte della trama si incentra sul tentativo ben riuscito del protagonista, uomo bianco, di educare un uomo nero incontrato su di un isola deserta.

Questo è l’orizzonte che la cultura dell’epoca permetteva di considerare come qualcosa di condiviso con il lettore, ma ovviamente le cose cambiano e i contemporanei rigettano la maggior parte dei presupposti valoriali indiscussi nel passato. Purtroppo questo non è un fenomeno contenuto, il discorso può essere esteso verosimilmente alla stragrande maggioranza dei libri mai stati scritti finora.

Cosa succede allora se ci si accorge che fino all’altro ieri la nostra società, e di conseguenza la nostra letteratura è stata razzista, sessista e omofoba?

Seguendo la lezione di Wolfgang Iser, accademico e critico letterario tedesco, Siti ci invita a tenere sempre in considerazione la differenza tra il «lettore implicito» a cui si rivolge direttamente l’autore e  il «lettore empirico», che oggi si rapporta con il testo scritto e fa, come dire, la tara tra i valori del presente e quelli del passato. Secondo Siti infatti «nessun testo andrebbe mai cancellato o mutilato, ma soltanto spiegato».

Quello che resta problematico allora è il cambiamento più o meno consapevole delle modalità di giudizio sui classici. Ci si domanda, ovvero, se abbia senso o meno modificare quel canone, composto quasi esclusivamente di autori maschi e bianchi, che è indubbiamente frutto di iniquità, magari inserendo esempi di categorie marginalizzate nel corso della storia con un meccanismo che può essere comparato a quello delle quote rosa, in cui per riequilibrare una stortura profondamente radicata si è costretti ad attuare un metodo non proprio egualitario.

Quello che si augura Siti, tuttavia, è che possa esistere una sorta di lettore ideale oltre a quello implicito e quello empirico, il cui giudizio di valore funga da settaccio della storia delle opere d’arte. Un lettore esperto, capace di leggere un testo verificandone, in modo ragionevole (non matematico) il reale spessore: sia dal punto di vista formale, sia da quello dei contenuti, dei temi e della coerenza. C’è una bella differenza tra romanzi in grado di aprire nuovi orizzonti di senso e altri che invece ne sono solamente gli epigoni, anche se scritti da chi appartiene a qualche tipo di minoranza sociale. Esplicativo è l’esempio di Amanda Gorman, giovanissima autrice afroamericana divenuta famosa per il suo intervento durante l’insediamento di Biden, in cui recitò una sua poesia con una tale intensità emotiva da far commuovere.

Il significato politico della sua opera, oggettivamente, è davvero straordinario, ma il suo valore letterario, bisogna riconoscerlo, non raggiunge affatto una tale altezza.

Se nessuno può pensare seriamente di mutilare ciecamente i classici della letteratura in nome del politicamente corretto, la cosa che preoccupa di più Walter Siti in questo saggio non è che la letteratura possa fare del male, ma il suo contrario, ovvero l’idea che debba necessariamente fare del bene. Siti evidenzia come in seguito a certi eventi recenti, come il crollo del Muro di Berlino e le Torri Gemelle, in cui la storia ha ricominciato a “correre”, sia nato una sorta di senso di colpa negli scrittori che, vista la situazione emergenziale in cui vige l’Occidente, non avrebbero più potuto ritirarsi nelle loro torri d’avorio per sondare egoisticamente la propria interiorità, ma avrebbero dovuto schierarsi apertamente, essere militanti.

L’idea diffusa soprattutto a sinistra (Murgia, Saviano, Carofiglio) che la letteratura debba avere una funzione pedagogica, e istradare al Bene, o avere una funzione terapeutica, è tanto sciocca quanto l’idea diffusa soprattutto a destra che la letteratura debba rispettare e anzi proteggere i valori etico-religiosi di una determinata comunità o Stato. Il problema di essere costantemente in trincea, secondo Siti, sacrifica molte cose che fanno invece la vera forza della letteratura. Il dover agire immediatamente per arrivare al maggior numero di persone possibili per cambiarne l’atteggiamento, unito alla rivoluzione digitale, ha implicato una generale tendenza alla semplificazione e alla frammentazione dei messaggi. Consequenziale a questo tipo di ragionamento è il discredito da parte di molti del valore dello stile della scrittura e delle questioni puramente formali di un’opera, proprio perché considerato uno spreco di tempo in un epoca così veloce. 

Privilegiare l’efficacia, semplificare e frammentare hanno portato ad un impoverimento dello stile in letteratura che secondo Siti è invece il suo aspetto fondamentale; prima di tutto perché la forma non è altro che contenuto solidificato (secondo la fortunata formula adorniana) ma soprattutto perché la forma è ciò attraverso cui viene portata in superficie la profondità dell’autore, ciò che nemmeno colui che scrive sa di sapere. Lo stile, così come il lapsus freudiano, è l’unico modo per far emergere qualcosa che altrimenti non verrebbe mai allo scoperto.

Allora in che cosa consisterebbe la vera letteratura?

Di certo non la si potrebbe paragonare ad un altoparlante attraverso cui l’autore comunica alla maggior parte delle persone cose che sa già, e nemmeno potrebbe essere associata ad una lanterna attraverso la quale rischiarare il cammino verso la verità. Ciò a cui più assomiglia la letteratura, come emerge dal saggio di Siti, è un intricato labirinto per lo smarrimento interiore in cui immergersi e sprofondare. Se invece si vuole appiattire la scrittura solamente al suo valore terapeutico (abusatissimo oggi il genere dell’autopatografia), che di certo possiede ma al quale non si limita affatto, e si ricerca a tutti i costi il rispecchiamento del lettore, si travisa lo scopo dell’arte in generale.

Certamente la letteratura non è totalmente indifferente alla morale, è ovvio, ma la verità è che il significato delle opere può essere contemporaneamente conservatore e progressista, dannoso e benefico, devastante e insieme terapeutico, senza che risolva mai le sue contraddizioni interne. Bisogna accettare che dentro di noi esistano opposti che non trovano una sintesi, è di questo che dovrebbe parlare la letteratura, perché la sua essenza, il suo valore principale, sta proprio nella sua ambiguità. Giornalismo d’inchiesta, cronaca, biografia, saggistica o discorsi pubblici sono usi della scrittura assolutamente insostituibili, ma totalmente distinti dalla forma conoscitiva propria della letteratura. Solo quest’ultima è in grado di restituirci noi stessi per quello che siamo veramente, perfino in quella parte più profonda, contraddittoria e ambigua.

Sartre, paladino della militanza letteraria, considerava l’impegno qualcosa di molto diverso da quello che si intende oggi: lo scrittore engaged ricerca il rovesciamento di qualsiasi ordine, la sua è una scuola di libertà, tutto il contrario del neo-impegno contemporaneo che invece tenta di ricostruire un nuovo ordine espellendo le parti più inquietanti e dolorose della vita. La nuova rivoluzione vuole riparare anziché scardinare le nostre sicurezze, la vera letteratura non può e non deve essere imbrigliata nemmeno dalle migliori e più cogenti istanze morali, perché essa ci racconta il mondo così com’è, nella sua tremenda realtà, al di là del bene e del male.

Articolo di Riccardo Piccolo

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