Del: 8 Giugno 2021 Di: Chiara Malinverno Commenti: 0

Dopo 25 anni di pena scontata in carcere, da lunedì 31 maggio, il killer di mafia Giovanni Brusca è libero, in libertà vigilata, ma pur sempre libero. Come è potuto accadere? Come è possibile che sia consentito a colui che si è macchiato di tanti omicidi da non ricordare il numero, che ha segregato e sciolto nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo e che ha azionato il pulsante di innesco della bomba della strage di Capaci, di vivere libero fuori dalle mura di un carcere come un comune cittadino?

Ciò è stato possibile grazie al decreto-legge n. 8 del 1991, convertito nella legge n. 82 del 1991 poi modificata il 13 febbraio 2001, secondo cui chi collabora con lo Stato nel far luce su delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale, fra cui i delitti commessi da organizzazioni criminali, ha diritto a misure di protezione e importanti sconti di pena.

Perché un criminale possa essere considerato collaboratore di giustizia e possa dunque beneficiare di protezione e sconti di pena, è necessario che lo stesso si penta, ossia decida di tradire l’organizzazione cui è affiliato fornendo importanti informazioni circa le modalità operative dell’organizzazione stessa e i crimini da essa commessi, nell’ottica che nessuno come chi ha vissuto in una certa organizzazione può essere capace di fornire informazioni sulla stessa.

Nel caso di Giovanni Brusca è avvenuto questo. Brusca è stato arrestato il 20 maggio 1996 e, dopo numerosi tentativi di depistaggio e di finti pentimenti, ha deciso di collaborare con lo Stato, fornendo preziose informazioni prima sulla strage di Capaci, poi sulla trattativa Stato-mafia e ancora su altri numerosi delitti commessi da Cosa Nostra. Per quanto possa sembrare paradossale, è grazie all’apporto conoscitivo fornito da Giovanni Brusca che è stato possibile minare le fondamenta di Cosa Nostra, collezionando decine di arresti.

In questa prospettiva, la liberazione di Brusca non può stupire. Indigna e fa male, ma non stupisce.

Come ha dichiarato la sorella di Giovanni Falcone, Maria Falcone, «umanamente è una notizia che mi addolora, ma questa è la legge. Una legge che peraltro ha voluto mio fratello e quindi va rispettata». Della stessa idea è anche Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo Borsellino, il quale ha espresso profondo rammarico per la scarcerazione di Brusca, ma anche piena accettazione, dicendo «La liberazione di Brusca, che per me avrebbe dovuto finire i suoi giorni in cella, è una cosa che umanamente ripugna. Però, quella dello Stato contro la mafia è, o almeno dovrebbe essere, una guerra e in guerra è necessario anche accettare delle cose che ripugnano. Bisogna accettare la legge anche quando è duro farlo, come in questo caso».

La scarcerazione di Giovanni Brusca non è, come è stato detto dal senatore Matteo Salvini, una schifezza, né, come ha affermato Rita dalla Chiesa, una vergogna di Stato, ma è la naturale conseguenza di una scelta adottata trent’anni fa in una situazione di piena emergenza in cui la mafia stava tenendo in scacco lo Stato e in cui lo Stato non ritenne fosse possibile soluzione migliore che scendere a patti con chi, dopo essere stato causa di crimini immondi, decidesse di collaborare. 

La scarcerazione di Giovanni Brusca, così come quella di numerosi criminali prima e dopo di lui, è tremendamente dolorosa e umanamente difficile da comprendere, ma non può far perdere fiducia nello Stato, perché, per quanto possa sembrare un paradosso, è stata frutto di una scelta politica adottata in una epoca storica in cui collaborare con la mafia sembrava l’unica via distruggerla. 

Chiara Malinverno
Scrivo articoli dal primo anno di liceo, ma non ho ancora capito se voglio farne un lavoro. In ogni caso avrò una laurea in giurisprudenza su cui contare, forse.

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