La storia dell’animazione orientale ha un prima e un dopo la nascita dello Studio Ghibli, capace con i suoi lavori di cambiare per sempre il modo di narrare e animare una storia. La straordinaria poetica, l’universalità dei temi trattati e l’inconfondibile sensibilità dello studio hanno dato alla luce capolavori che abbracciano il pubblico più giovane insieme a quello più adulto, film che sono diventati pietre miliari del cinema mondiale. La figura che più spicca dello studio giapponese è sicuramente Hayao Miyazaki, grazie all’oscar con La città incantata e film del calibro di Princess Mononoke, Il castello errante di Howl e Porco rosso, ma troppo spesso ci si dimentica dell’altro regista e fondatore del Ghibli: Isao Takahata.
Timido ed introverso, Takahata è molto diverso dall’amico e collega Miyazaki: i film diretti da lui sono meno appariscenti e vistosi, colpiscono meno sul lato tecnico ed entrano maggiormente nelle interazioni tra i personaggi e il loro aspetti più interiori. Il suo attaccamento verso il lavoro è sempre stato maniacale e certosino, per lo Studio Ghibli ha scritto e diretto solo cinque lungometraggi in venticinque anni di carriera e i suoi capolavori imprescindibili sono Una tomba per le lucciole (il suo primo progetto dopo la fondazione dello studio) e La storia della principessa splendente, l’ultima sua immensa fatica prima di spegnersi nel 2018.
Il suo ultimo film non è solo il suo testamento, la sua indelebile impronta, ma è una favola ispirata a un racconto popolare giapponese che trascende lo spazio e il tempo per raggiungere tutte le realtà possibili.
Un anziano tagliatore di bambù trova all’interno di uno dei tanti fusti della foresta una piccola creatura dalle sembianze regali. La raccoglie docilmente, la porta a casa dalla moglie e si accorgono che è diventata una neonata, così insieme decidono di crescerla e chiamarla Principessa. La bambina in poche settimane cresce velocemente e raggiunge l’età degli altri bambini del villaggio, che la accolgono nel loro gruppo soprannominandola “Gemma di bambù”. Principessa insieme al gruppo e soprattutto all’amico Sutemaru impara a conoscere quel mondo, a vivere un’infanzia leggera e spensierata immersa nel verde.
Il tagliatore di bambù ha sempre cresciuto con amore il dono divino che ha ricevuto, ma quando trova negli stessi fusti di bambù pepite d’oro e vestiti sfarzosi capisce che il destino della Principessa è nella capitale e non in quei luoghi rurali. Compra una maestosa residenza in città e trasferisce tutta la famiglia, convinto sia il desiderio e il sogno della bambina, che ormai adolescente deve lasciare tristemente il luogo dove è cresciuta per una realtà tutta nuova. Lì riceve il nome di Principessa splendente, viene servita e cresciuta come una regina ed è costretta ad imparare i comportamenti ferrei e nobili che una fanciulla dell’alta società deve mantenere. Il suo animo e il suo umore diventano sempre più grigi, in quanto quella non è la realtà che desidera, ma il volere di qualcun altro. La protagonista si troverà di fronte ai corteggiamenti di molti uomini, fino ad arrivare all’interesse dell’imperatore, scoprirà le sue origini e riuscirà tornare in quei luoghi che tanto desiderava rivedere, ma qualcosa andrà storto. Il finale è commovente, poetico e pieno di sentimento.
La forza del film è indubbiamente il lato tecnico e visivo, il disegno è scarno e semplice, a volte solo quasi accentuato, ma è ciò che rende La storia della principessa splendente unico nel suo genere.
L’epopea visiva presente nei maggiori film d’animazione viene abbandonata per un ritorno alla matita, al disegno a mano senza l’uso del computer e l’utilizzo dell’acquarello, tornando così indietro nel tempo. Una scelta azzeccatissima per raccontare una favola, una storia di formazione capace di catturare l’attenzione dei più piccoli, ma anche un pubblico più adulto per alcune dinamiche sottili che il film affronta come la differenza tra città e campagna, tra realtà nobile e contadina, l’attaccamento morboso ai beni materiali a discapito delle relazioni umano e lo scontro interno tra un padre che vuole il meglio per sé e una figlia costretta a seguire i suoi ordini. Takahata con il suo ultimo film è riuscito a esprimere tutta la sua poetica, con una splendida tecnica che eleva una semplice favola in una storia universale, un esempio di come raccontare e strutturare un film d’animazione alla perfezione.