Dare un nome alle cose è una soddisfazione plastica. Nel flusso continuo del divenire, afferri una concrezione di materia e dici: ferma lì dove t’ho messo! Capitasse di vagare qualche miglio più lontano e poi inciampare nello stesso punto, la riconosceresti subito: un simulacro immobile a dispetto del magma che lo circonda, col nome che gli hai rifilato a mo’ di tratto distintivo e quell’aria di eternità familiare tipica delle cose fuori dal tempo. Dev’essere per questo che la faccenda del linguaggio inclusivo (quel parlare che sta attento a non discriminare) è scomoda, impegnativa, a detta di molti fastidiosa: riformare i nomi è lo sforzo di smontare pezzetto per pezzetto un impero dei segni a cui si è fatta l’abitudine, decostruire un sistema di orientamento e creare una mappa nuova. Non è forse il linguaggio il più spontaneo e primordiale degli atti interpretativi?
Che piaccia o no, una lingua non è mai neutra, perché esprime un punto di vista: relativa per natura, viene accettata per convenzione dal gruppo che la utilizza.
Ora, esistono lingue androcentriche? Pensiamo alla nostra e, se l’esempio del maschile sovra-esteso non convince, a una serie di espressioni tutt’altro che in disuso: essere una femminuccia, indossare i pantaloni, avere gli attributi. Oppure, alla tendenza a definire gli uomini in termini di status e di ruolo, e le donne in termini relazionali e parentali: il presidente, la moglie del presidente e così via. Ecco che allora il genere, anziché un incontrovertibile dato di natura, pare più un costrutto valoriale di opposizioni binarie: quel che è maschile riguarda la sfera pubblica e la promozione sociale, e il femminile finisce spesso relegato a un’area semantica di marginalità domestica non proprio idillica, se vogliamo la parità. Senza accorgercene parliamo un linguaggio sessualizzato, in cui il genere si mescola alle strutture di potere, e così facendo ridisegniamo le asimmetrie di un mondo che non è, purtroppo, paritario. Provare a ripensarlo a suon di perifrasi e – dove possibile – declinazioni alternative sarà pure una priorità meno impellente di altre, ma è una proposta che merita un tentativo.
Giunta al punto di non ritorno che è la scoperta di un’impalcatura culturale, tuttavia, l’umanità del XXI secolo si è accorta che di generi non ne esistono solo due. Così, accanto alle desinenze maschili e femminili, ha ripescato l’asterisco. Abominio ortografico per i puristi, oscuro enigma per chi si interroga sulla sua pronuncia, l’asterisco è un’apertura del linguaggio al caos. Cosa c’è di più liquido e mutevole della sessualità e del modo di viverla? Una lingua che usa un asterisco come desinenza abdica in parte all’irrigidimento definitorio che le è congenito, si ritaglia un’oasi di intoccabile neutralità: l’asterisco vuol dire tutto e niente, chiunque (tutt*) vi si può riconoscere, e con chiunque s’intende una nebulosa totalità di cui si suppone l’esistenza senza addentrarsi nei cavilli della nomenclatura. Come a dire: al diavolo, sulle questioni di identità sessuale mi arrendo al disordine.
È curioso che proprio in quest’ambito, di recente, si incorra anche nel fenomeno opposto. Ogni giorno affiorano auto-definizioni seguite da una terminologia specifica e in costante aggiornamento: i mass-media somigliano sempre più a un’elefantiaca anagrafe sessuologica che conia senza pace parole nuove, forme emergenti di una palude che più la si indaga più sembra sfuggire a qualsiasi classificazione definitiva e completa.
Per ora, comunque, le pignolerie linguistiche paiono confinate agli aspetti di gender: l’inclusività non rimanda all’esaustività del linguaggio in senso lato, e dall’appendice politica non si risale mai a dispute epistemologiche. La miseria lessicale, se si va oltre lo steccato della sessualità, sembra un problema di scarso peso – rimpiazziamo aggettivi con equivalenti più generici, confondiamo effettivo con efficace, invidia con gelosia; ai bambini non viene insegnata la bellezza di un ventaglio di sinonimi e li si iscrive a corsi prematuri di inglese, così continueranno a ignorare la sintassi ma lo faranno col virtuosismo del poliglotta.
D’altronde, bisogna ammetterlo, a voler acchiappare il sogno di un idioma inclusivo e pure esaustivo c’è da diventar pazzi.
Un tale, che di lavoro faceva l’ingegnere e aveva il puntiglio di descrivere la realtà al millimetro, ci aveva provato qualche decennio fa. I suoi libri parlano un plurilinguismo difficile, contorto: la scrittura di Gadda è un accumulo sgangherato di nomi inventati, in cui ogni aspirazione geometrica alla tassonomia sembra perdersi sotto la spinta centrifuga della molteplicità che racconta. A chi lo accusava di essere incomprensibile e barocco, l’ingegnere-scrittore rispondeva: barocco è il mondo, mica io. In effetti, per fare il verso al divenire serve un linguaggio nevrotico, multiforme, denso di tecnicismi e ricami eccessivi, tanti quanti i dettagli di cui dar conto. Dire il molteplice in tutti i suoi grumi, descrivere lo “spettro del genere” facendo di ogni sfumatura un sostantivo significa per forza perdere il filo. Di fronte alla mostruosità dell’impresa, si capisce il sollievo di un asterisco – anche se poi, sopita da un lato, la tentazione del catalogo torna a pungolarci col quotidiano “sappiate che mi definisco come…”.
In questa strampalata e contraddittoria guerra al disordine che sembra non conoscere vie di mezzo, delle due l’una: o lasciamo che la lingua esploda e ci rassegniamo a inseguirla un neologismo dietro l’altro, come matti, in quello scivoloso labirinto senza uscita che è il mondo, o il silenzio è l’unico linguaggio inclusivo che ci rimane.
L’immagine di copertina è “La battaglia delle Argonne”, dipinto del 1959 di René Magritte.