
La sera del 21 luglio 2001 alcuni manifestanti no-global si erano accampati nella scuola Diaz di Genova per passare la notte. In quei giorni a Genova, in concomitanza con lo svolgimento del G8, si erano tenute diverse manifestazioni, duramente represse dalla polizia. Quella sera 346 poliziotti e 149 carabinieri irrompevano nella scuola e aggredivano ferocemente le persone al suo interno. L’allora vice questore Michelangelo Fournier definì l’accaduto «macelleria messicana», l’organizzazione Amnesty International affermò che si era consumata la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale.
I molti feriti vennero portati in ospedale e le altre persone arrestate vennero portate nella caserma di Bolzaneto, dove furono sottoposte a ulteriori vessazioni e abusi fisici e morali. La gran parte dei procedimenti giudiziari avviati in seguito a quei fatti drammatici venne archiviata a causa dell’impossibilità di identificare personalmente gli agenti responsabili. Quest’anno ricorrono i 20 anni da quella terribile tragedia.
Il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere circa 300 tra agenti di polizia penitenziaria ed esterni organizzavano quella che loro definivano una “perquisizione straordinaria generale”. In sostanza, si trattava di una rappresaglia contro le persone detenute, che nei giorni precedenti avevano protestato per contestare la sospensione delle visite e per chiedere la dotazione di mascherine e igienizzanti al fine di ridurre il rischio di diffusione del coronavirus. Iniziano così quattro ore di inferno. Nei video delle telecamere, diffuse dal quotidiano Domani, si vedono persone costrette a passare in mezzo agli agenti che si scagliano su di loro con pugni, calci e manganelli. Una crudeltà che non si ferma, ma infierisce ancora e ancora, contro chi è a terra e incassa inerme i colpi.
Il fine vessatorio della “perquisizione” sarebbe inoltre dimostrato da diverse intercettazioni telefoniche, nelle quali ricorrono espressioni come «li abbattiamo come i vitelli».
Una delle vittime ha raccontato che gli agenti arrivati dall’esterno avevano tutti i caschi e il volto coperto per non farsi riconoscere. E infatti la magistratura sta ancora faticando a identificare tutti gli autori delle violenze.
Il 27 giugno 2021 l’influencer diciottenne Huda Kattan ha denunciato in un video postato su Instagram abusi di potere e insulti razzisti da parte della polizia a Milano. Il video mostra un gruppo di ragazzi neri aggrediti dalle forze dell’ordine davanti ai tavoli fuori da un McDonald’s. Secondo la versione di queste ultime, che presenta peraltro diverse incongruenze, gli agenti sarebbero intervenuti per sedare una rissa. Secondo la giovane, invece, la rissa si sarebbe verificata un’ora prima tra persone diverse, e la causa dello scontro sarebbe stata l’aver suonato il campanello di un monopattino elettrico. Ma al di là dell’evento scatenante e delle esatte dinamiche (il caso è ancora in esame) i filmati che stanno circolando in rete mostrano uno scenario spaventoso: uno dei ragazzi si trova a terra, disarmato, circondato dagli agenti in tenuta antisommossa, una ragazza, anche lei disarmata, cerca di intervenire in sua protezione, gli fa da scudo e cerca di allontanare gli agenti che, in risposta, la colpiscono in testa con il manganello. Kattan ha raccontato di aver chiesto, insieme agli altri, il numero identificativo agli agenti, che però si sono rifiutati di fornirlo.
Si tratta di tre eventi diversi, che ci costringono ad ammettere che le derive vessatorie non sono un’esclusiva della polizia americana, al centro dell’attenzione mediatica, e che hanno un minimo comune denominatore: l’abuso di potere da parte delle forze dell’ordine, e la difficoltà (o impossibilità) di identificare i colpevoli. Tre esempi che evidenziano chiaramente la necessità di uscire dalla retorica delle “poche mele marce” presenti nel sistema e riconoscere quello che è invece un problema più radicato e strutturale, che come tale va affrontato.
Buona parte del dibattito pubblico indica l’introduzione dei codici identificativi sulle divise come primo passo per disincentivare questi comportamenti a monte, e per permettere l’individuazione dei colpevoli a valle, a garanzia sia dei cittadini sia di tutti i membri delle forze dell’ordine che ogni giorno svolgono correttamente il proprio lavoro.
A questo proposito, Amnesty International ha da tempo lanciato la campagna “Forza Polizia, mettici la faccia” e una petizione online, nella quale, tra l’altro, si sottolinea che il Parlamento Europeo, già nel 2012, esortava gli stati membri “a garantire che il personale di polizia porti un numero identificativo”, e da allora, diversi Paesi hanno dato seguito a questa richiesta, ma non l’Italia. E infatti, 21 su 28 paesi europei prevedono misure di identificazione per gli agenti impegnati in attività di ordine pubblico, altri le prevedono in via di fatto, cosicché Italia, Austria, Cipro, Lussemburgo e Olanda sono gli unici sprovvisti di tali misure.
Il 23 gennaio 2019 la deputata del Pd Giuditta Pini ha presentato in Parlamento una proposta di legge che prevede il codice identificativo e la body cam sui caschi degli agenti: una soluzione, quest’ultima, richiesta anche dai sindacati della polizia, che consentirebbe di ricostruire al meglio quando accaduto durante scontri o manifestazioni. «La legge è ferma in commissione da oltre 20 mesi», ha affermato in questi giorni. Codici identificativi e microtelecamere non risolveranno il problema, ma saranno un inizio per permettere un più sicuro accertamento giudiziario dei fatti e garantire così il rispetto della dignità umana, nell’interesse di tutti.