Come ricorda “Limoni”, il nuovo (e consigliatissimo) podcast di Internazionale disponibile a puntate sul sito del periodico, al varco di questo luglio 2021 ci attende il ventennale di una macchia nella storia del nostro paese: quella dei fatti di Genova del 2001, della “macelleria messicana” compiuta dalle forze dell’ordine ai danni di chi protestava contro la riunione del G8. Nel tentativo di mettere un solo coperchio sopra al variegato insieme dei cortei di allora, il contro-vertice organizzato sull’asfalto e coordinato dal Genova Social Forum viene spesso etichettato come “movimento no-global”: i nemici della globalizzazione, quelli che, di fronte all’immoralità del profitto o all’americanizzazione dilagante, reclamano un mondo diverso.
Ma siamo sicuri che quest’altro mondo non sia, a sua volta, integrato? O meglio: era davvero la globalizzazione il bersaglio delle manifestazioni del 2001?
Per dare una definizione rapida, la globalizzazione è un accelerato intensificarsi di relazioni e scambi in più ambiti, da quello economico al piano linguistico-culturale. I globalismi, invece, sono ideologie di globalizzazione: cartografie concettuali che danno a questa compressione del mondo una serie di valori e significati, codificando il nuovo immaginario globale in programmi politici, discorsi legittimanti, rivendicazioni e giù di lì.
Ora, esistono certo ideologie anti-globaliste. Si prendano i nazional-populisti: di fronte al multiculturalismo e a ogni avanzata della ragnatela globale tirano su il ponte levatoio in difesa di quella che, a detta loro, sarebbe l’unità nazionale: una sorta di roccaforte identitaria minata da subdole infiltrazioni barbariche, baluardo di un comune passato ancestrale, di un nucleo etnico puro e primigenio e tuttavia conoscibile solo tramite cenni allusivi, mai col carotaggio storico – sarà che le istituzioni politiche non sono né ingenerate né eterne e spiace ammetterlo, ma questo è un altro discorso.
Ciò di cui si fa portavoce il cosiddetto “globalismo della giustizia”, nome che possiamo dare alla multiforme contestazione da sinistra dello status quo economico, è invece una alter-globalizzazione: un’alternativa all’ideologia neoliberista dominante, ovvero il globalismo di mercato – quello di “Forbes”, delle multinazionali. Per i neoliberisti, il mercato autoregolamentato fa da paradigma al futuro ordine mondiale: la globalizzazione consiste in un’integrazione e liberalizzazione di commercio e mercati finanziari, e la società dei consumi in una garanzia di libertà e progresso materiale. Alla legge naturale della deregulation non ci sono alternative: l’espansione del libero mercato globale è una dinamica spontanea, una logica inesorabile al di sopra della politica, benefica per tutti – si citano spesso i casi di Cina e India, economie emergenti degli ultimi anni. Resta al giudizio di chi legge valutare se un incremento del Pil, quando la ricchezza si concentra nelle mani di un’élite, si possa chiamare progresso economico; se il crescente flusso di migranti dal Sud al Nord del globo non sia, piuttosto, la prova di un divario che le politiche neoliberal stanno dilatando.
È una globalizzazione così intesa, e non la globalizzazione in sé, che il cosiddetto “Movimento per la giustizia sociale” nato negli anni ’90 rifiutava; sono i principi neoliberisti che ONG, movimenti “Occupy”, partiti ecologisti e frange neo-anarchiche avevano in mente ripetendo lo slogan “un altro mondo è possibile”: alla battaglia di Seattle del 1999 contro la World Trade Organization, al G8 di Genova vent’anni fa. Quali sono i capi di accusa rivolti al neoliberismo? Crisi economiche come quella del 2008, deterioramento ambientale, diseguaglianze tra Stati si trovano in prima linea, e sono anche i cardini del cosiddetto New Deal globale, un avocato piano di sviluppo mondiale più equo: ridistribuire le ricchezze a favore dei paesi in via di sviluppo, implementare accordi ecologici più severi, porre freno a paradisi fiscali e delocalizzazioni produttive, fissare standard internazionali per proteggere i lavoratori dai rischi della flessibilizzazione.
Accanto al globalismo di mercato e a quello della giustizia, c’è anche un altro spettro ad aggirarsi nell’arena politica, di preciso nel suo emisfero destro: quello dei globalismi religiosi, che vedono nel mondo integrato la prospettiva di una comunità di fedeli, di un’etica da difendere o espandere contro le minacce di secolarismo e consumismo – si pensi alla strategia del terrore jihadista: per quanto tremenda, è pur sempre un modo di pensare la società in termini globali.
Parlare di ideologie e globalizzazioni alternative ci permette di conservare una certa neutralità terminologica, contro la tendenza a identificare la globalizzazione col mondo su cui i neoliberisti proiettano i loro valori. La globalizzazione, che poi è una storia vecchia almeno quanto l’apertura delle rotte commerciali oceaniche, in sé non è né buona né cattiva: dipende da come la si rigira. Infatti, il dibattito a riguardo si risolve sempre in un moto oscillatorio tra encomi e condanne, specie sull’ambiguo terreno culturale: a chi denuncia la patina uniformante della “mc-donaldizzazione” si può sempre ribattere che in alcuni paesi africani la Coca-cola è una bevanda rituale e non un digestivo da affiancare a una pizza al trancio, che le culture non sono mai state compartimenti stagni e così via, nel continuo rimbalzo di un dilemma spinoso: sul precipizio del nuovo millennio, un pianeta sempre più interconnesso sarà un bene o una rovina? Che dire delle crisi finanziarie globali, dei consumi insostenibili per l’ambiente, della crescente brutalità che avvicina le contestazioni di sinistra al fondamentalismo? Un altro mondo è forse possibile solo al prezzo della violenza?
A voler essere ottimisti, una terza via ci sarebbe.
In un’analisi degli anni ‘40, Karl Polanyi osservava che la competizione del mercato libero di inizio Novecento aveva corroso valori come reciprocità e responsabilità civica, facendo da miccia a un’escalation disastrosa: movimenti di opposizione al capitalismo senza regole, nazional-protezionismi sempre più radicali fino a diventare regimi totalitari.L’estremismo dei reazionari di oggi, allora, deve suonare come un monito: se non vogliamo che lo scenario si ripresenti sarà bene non tanto arrestare la globalizzazione, ma riformarla al più presto in senso egualitario e democratico, nelle istituzioni economiche così come a scuola.
Cucire su misura per questo nostro pianeta stanco un tessuto nuovo, che non sia una rete deregolamentata di transazioni finanziarie e relazioni concorrenziali ma un arazzo di solidarietà internazionale e impegno civile; e magari tagliare via l’odiosa, velata presunzione per cui il Terzo Mondo è la pezza da rattoppare in posizione subalterna, la meta di volontariato che fa curriculum, il resort in cui fotografare commossi bambini che sorridono nonostante tutto come fossero animali allo zoo. Ci si può arrabbiare anche senza manifestazioni vandaliche, d’altronde; anzi, arrabbiarsi è d’obbligo perché nessun bambino dovrebbe sorridere nonostante un futuro che non ha, perché una riforma globale è di necessaria urgenza – anche se è difficile. Anche se significa rinunciare alla celebrazione della vita individuale come valore in sé, primo comandamento del credo odierno, e avere il coraggio di mettersi a servizio di una Terra che non faremo in tempo a vedere: un mondo senza centri avanzati né periferie in via di sviluppo, certo distante anni luce da qui, ma impossibile nemmeno.
Bibliografia:
– Steger, La globalizzazione
– Polanyi, La grande trasformazione