
Per gli esponenti afghani della generazione Z, nati indicativamente tra il 1996 e il 2001, il regime talebano è quasi l’equivalente per i coetanei italiani del passaggio dalla lira all’euro: ne conoscono la storia, gli antecedenti, le conseguenze, i genitori ne parlano con vivido ricordo, ne rammentano la confusione, l’incertezza; ma di fatto, sulla loro pelle, loro non lo hanno vissuto.
Ciò che non accomuna la generazione Z afghana ed italiana è l’essere cresciuta sotto un’occupazione militare ventennale, organizzata dall’Occidente per combattere il terrorismo di Al-Qaida e il regime talebano, e costata ai governi occidentali, tra cui anche quello italiano, miliardi di dollari.
Da giorni però i media internazionali raccontano del ritorno dei Taliban e della tragedia che gli afghani e le afghane stanno vivendo in queste ore: le vie di fuga bloccate, gli eserciti in ritirata, le scuole chiuse, le donne senza lavoro, giornali e telegiornali silenziati, migliaia di profili social che chiudono, mentre i collaboratori afghani di governi e ONG occidentali sono ricercati e rischiano di essere torturati e uccisi.
Ma chi sono questi Talebani? E dov’erano negli ultimi vent’anni?
Per capire chi sono i talebani bisogna tornare molto indietro nel tempo, in particolare nel 1978, allo scoppio della Rivoluzione di Saur e alla nascita della Repubblica Democratica dell’Afghanistan. L’Afghanistan è un paese dell’Asia Centrale privo di sbocchi sul mare, nato ufficialmente nel 1747 e abitato da numerosi popoli di diverse etnie, religioni e confessioni. Fino al 1973 lo Stato afghano era una monarchia che lottava per costruirsi una posizione solida nella comunità internazionale, dal momento che solo nel 1919 aveva ottenuto l’indipendenza dall’Impero Britannico. Nel 1973 la monarchia venne rovesciata e al suo posto venne instaurata una Repubblica, durata appunto fino alla Rivoluzione di Saur.
Nel 1978 il clima era ancora quello della Guerra Fredda: l’URSS nutriva grossi interessi nei confronti del territorio afghano, ricco di gas naturali ancora poco sfruttati dai locali. Per questo era stata di fatto l’Unione Sovietica a guidare la Rivoluzione e ad amministrare poi la nuova Repubblica Democratica, secondo i principi tipici del comunismo sovietico: appare fondamentale sottolineare che grazie ai sovietici vigeva l’ateismo di Stato, in un luogo fortemente diviso tra etnie da sempre il lotta fra loro e dotate di culture religiose profondamente radicate. Per questo il controllo sovietico in Afghanistan non ricevette mai l’appoggio completo della popolazione, che ben presto si organizzò in piccoli eserciti di guerriglieri, detti Mujaheddin.
Il fronte dei Mujaheddin non era un fronte unitario, dal momento che lo stesso popolo afghano non era unito. Basti pensare che facevano parte dei Mujaheddin sia Mohammad Omar, capo politico e religioso dei Talebani, sia Ahmad Massud, poi leader della resistenza al regime talebano. I Mujaheddin erano sostenuti soprattutto da Pakistan, Iran e Arabia Saudita, ma addestramento, denaro e armi provenivano anche dagli Stati Uniti, nemici storici dell’Unione Sovietica.
Ed è proprio nei finanziamenti provenienti da questi stati che nacque la fazione dei Taliban, un gruppo religioso estremamente radicalizzato nell’interpretazione coranica.
I primi anni ’90 furono caratterizzati dalla caduta del muro di Berlino, dalla disfatta completa dell’URSS e di conseguenza della Repubblica Democratica afghana. Iniziò quindi una lunga guerra civile protrattasi fino al 1996, anno in cui i Talebani riuscirono a salire stabilmente al potere, applicando la forma più fondamentalista della Shar’ia, la legge islamica.
Una descrizione di quello che è stato per il popolo afghano il periodo dei talebani sarebbe pleonastica: la letteratura ed il cinema sono ricchi di racconti, ricostruzioni e spiegazioni di cosa è stato il regime talebano e cosa ha significato per i diritti umani degli afghani. Meno noto è il fatto che l’economia del regime era basata, così come lo è tuttora, sulla vendita illegale di oppioidi ed armamenti, non potendo contare su un solido riconoscimento internazionale e sulla partecipazione all’economia mondiale.
Il regime talebano nacque ufficialmente nel 1996 e si spense nel 2001, anno in cui la NATO, guidata dagli USA, fece il suo ingresso nel Paese per dare la caccia ad Al-Qaida, organizzazione terroristica responsabile dell’attentato alle Torri Gemelle, e al suo leader, Osama Bin Laden.

Secondo le ricostruzioni dell’intelligence americana, i terroristi di Al-Qaida erano infatti protetti dai talebani proprio in Afghanistan. Bin Laden venne ucciso in Pakistan nel 2011. Tra il 2001 ed il 2021, gli eserciti occidentali hanno collaborato in Afghanistan non solo per distruggere Al-Qaida e combattere quindi il terrorismo internazionale, ma anche per allontanare i talebani dal potere, evitando che il contrabbando su cui era basata la loro economia si perpetuasse e, collateralmente, ripristinando il rispetto dei diritti umani fondamentali all’interno del Paese. In venti anni di presenza militare, le truppe occidentali, con il benestare dell’ONU, hanno prestato supporto alla nascita di nuove istituzioni e di un esercito nazionale che potesse continuare a respingere i Taliban, i quali proseguivano la propria attività confinati nelle zone rurali più a sud del Paese.
Ogni estate negli ultimi vent’anni i Taliban hanno tentato un’offensiva verso Kabul – capitale afghana- per recuperare il controllo dello Stato, fallendo grazie alla difesa offerta dall’Occidente. Nel frattempo, la popolazione civile è tornata a respirare: libertà di culto, diritto di istruzione, lavoro, libertà di stampa sono tornate ad essere una realtà palpabile. Ciò nonostante, la vita non è mai stata realmente facile in Afghanistan: le ONG raccontano di una popolazione profondamente martoriata dalle guerre, vittima di bombardamenti, mine antiuomo inesplose (i famosi pappagalli verdi), proiettili vaganti, attentati terroristici ma soprattutto povertà e instabilità politica.
Un’occupazione militare come quella occidentale in Afghanstan, lunga vent’anni ed incredibilmente costosa, non poteva essere sostenuta all’infinito.
L’ex Presidente americano Donald Trump aveva fatto del ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan una delle sue principali bandiere elettorali, recuperata poi dal successore Joe Biden che ne ha accelerato il processo. Anche gli alleati NATO hanno seguito gli USA nel ritiro delle truppe: lo scorso 8 giugno il Ministro della difesa italiano Lorenzo Guerini era volato a Herat per la cerimonia dell’ammaina bandiera, terminando formalmente la missione italiana in Afghanistan.
Il governo e l’esercito che l’Occidente aveva sostenuto fino ad oggi si sono dimostrati impotenti di fronte all’avanzata talebana: tra corruzione, mancanza di organizzazione e munizioni, l’avanzata talebana è stata molto più veloce di quanto ci si potesse aspettare. In queste ore il personale militare e diplomatico occidentale sta tornando velocemente in patria, mentre la popolazione civile afghana teme il ritorno al regime del ’96. Tremano soprattutto i collaboratori di governi e ONG occidentali, le attiviste e gli attivisti, i membri delle minoranze (come quella di etnia hazara, perseguitata dai talebani) e le donne.
Mentre Joe Biden si dice soddisfatto della missione ventennale in Afghanistan, sottolineando come questa consistesse nella lotta ad Al-Qaida e non in un progetto di ‘‘nation building”, in Italia ed in Europa si inizia a discutere di corridoi umanitari che permettano alle persone più a rischio di evitare le ritorsioni dei talebani.
Non si sa ancora cosa comporti il regime talebano nel 2021.
I vertici talebani tendono a rassicurare i media occidentali, concedendo interviste anche a giornaliste donne e affermando di voler adottare un’interpretazione della Shar’ia rigorosa ma più vicina a quella già adottata in Pakistan o Iran, quindi ben lontana da quella applicata nel ’96 nello stesso Afghanistan. Allo stesso tempo, ai media internazionali faticano ad arrivare le notizie su quanto accade nelle zone provinciali del Paese. Tra fake news, informazioni prive di fonti e traduzioni sghembe, non sappiamo come i Talebani abbiano iniziato ad amministrare le zone lontane dai riflettori, tutti puntati su Kabul.
Vent’anni di occupazione militare non sembrano per ora aver portato dei risultati soddisfacenti sul lungo termine. Si teme un ritorno alla Shar’ia radicale, al contrabbando, alle pubbliche esecuzioni, alla persecuzione. Non può quindi non sorgere spontanea una domanda: ne è valsa la pena? Come disse Gino Strada, fondatore di Emergency e profondo conoscitore della questione afghana scomparso da pochi giorni,: «C’è un dato inoppugnabile: che la guerra è uno strumento ma non funziona, semplicemente non funziona».
Bibliografia:
– Talebani di Ahmed Rashid
– Pappagalli Verdi di Gino Strada
– Buskashì di Gino Strada