Del: 12 Settembre 2021 Di: Alessandra Pogliani Commenti: 0

I romanzi di formazione fanno sempre tendenza, in un mondo che ha paura del futuro. Abbandonarsi all’automatismo degli aggiornamenti è un ripiego scettico, la seconda scelta tranquilla per chi nel progresso non ci crede più e l’unico orizzonte che vede sul fondo del presente è quello della propria realizzazione – o meglio, accettazione. Gli ideali per cui vivevano i nostri antenati, nel pantheon post-moderno della mediocrità in cui gli dei che ci influenzano si preoccupano di smorzare ogni eccellenza, non sono già disvalori? Le cose bellissime, d’altronde, a volerle generano ansia da prestazione.

Questa specie di lagna polifonica dell’auto-accettazione travestita da bildungsroman insiste spesso sull’accumulo esperienziale come base compatta su cui costruire il sé di domani, e qui si avvicina alla sensibilità storica. Pare assurdo, dato lo scarso rilievo riconosciuto alla storia in termini di pubblica utilità, e invece il conto torna: a furia di narrazioni individuali e gallerie di foto-ricordo costruite su misura per noi dalle nostre protesi telecomunicative, si è persa l’abitudine di coniugare i verbi al plurale, di pensarci non come uno, ma come umanità.

Il presentismo digitale crea rotture tra generazioni, e le rotture generazionali sono sempre vuoti di memoria: lo spazio collettivo che abitavano i nostri antenati è invivibile non tanto per distanza temporale, ma perché le procedure di archivio che governano i nostri ricordi l’hanno spedito al macero in contumacia – essere idealisti e ragionare a utopie è roba da immaturi, e anche un po’ fuori moda. Si potrà mai ricomporre la frattura tra vecchi e giovani? Forse sì, forse no, ma intanto ci si può ingessare in poltrona con un libro del 1957 e stare a vedere che succede.

I nostri antenati è una trilogia di Italo Calvino: tre storie, un barone rampante, un visconte dimezzato e un cavaliere inesistente, a ricordarci chi siamo dal caos primordiale, senza soluzione di continuità, sotto alla stratificazione dei secoli che sì cambiano gli uomini, ma senza esagerare. Il barone rampante racconta di Cosimo Piovasco di Rondò, rampollo di Ombrosa con un padre austero: ci litiga, se la prende da bravo adolescente e anziché chiudersi in camera si ritira sugli alberi giurando di non scendere più. E bisogna prenderlo sul serio, perché quel matto, nel suo rifugio tra le fronde, ci resta per davvero.

Si dirà: uno cerca letture originali da fare a fine estate e si ritrova col solito canto straziante di inappartenenza, la pappardella rifritta del tizio incompreso nella sua speciale e imperfetta individualità da una società che lo vorrebbe raddrizzare. In effetti, un po’ lo è.

Esistono tuttavia diversità che non sono una questione di aspettativa e sentirsi all’altezza. Esiste, meno nota, una solitudine che viene dal profondo delle viscere e non è un fatto di discriminazione, ma di incapacità relazionale: un voler stare cogli altri eppure, quando ci si trova lì, soffocare, sentire il bisogno di volar via.

Si finisce sospesi come ragni, impigliati nel proprio groviglio contemplativo, a chiedersi se questo brontolio cerebrale di sottofondo non sia una prigione, se un ramo prima o poi si romperà, dieci spanne sopra a tutti non per sentirsi migliori, ma perché come si tocca terra si sprofonda. Ciò nonostante, non si smette mai di guardare sotto: l’eremitaggio assoluto a lungo andare stanca, e poi al gesto creativo, nell’aldiquà, serve sempre un punto di partenza.

Le cime degli alberi, in effetti, sono un ottimo osservatorio: il barone rampante sta al passo coi circoli illuministi, s’informa, organizza stratagemmi per la tutela dei boschi – è separato dalla comunità, irrimediabilmente distante, eppure attivo. Con le gambe a penzoloni e un cannocchiale a rovescio puntato sul divenire, Cosimo il mondo lo vede per il tutto tondo che è, senza cercare nel termitaio umano l’esperienza puntiforme della propria accettazione. O meglio, scorge pure quella ma è sottintesa, strumentale, qualcosa che ha senso solo nella misura in cui è il presupposto di un bene collettivo. Il baroncino non fa in tempo a diventare adulto che è già scomparso in un progetto più grande.

Quanto al fantasticare e alle astrusità contemplative, funzionano circa allo stesso modo: nascono da un rifiuto sociale, e mentre si pensa di slegare l’anima dal peso di vivere salta fuori che hanno il volto di una rivoluzione possibile – laggiù la gente ha bisogno eccome di un cannocchiale per vederci più nitido, di un’utopia da approssimare per non accontentarsi mai. Il bizzarro lavorio intellettuale che alimenta l’insonnia sembra una fuga, e invece è solo un modo di essere devoto agli altri sfiorandoli appena: ogni fantasia evasiva è già un ritorno alla realtà, e le storie inventate proiezioni ortogonali sulla stratosfera a mo’ di istruzioni per l’uso, proposte, visioni di insieme. Certo ci si presenta come tipi nevrotici, ai margini, sempre sulle loro e magari impediti nella praticità quotidiana; ma si fa un mestiere indispensabile, e forse questo basta a mandare in malora lo scontento di esser nati così.

Nella miscellanea dell’inconscio collettivo, leggere Calvino è pescare una fiaba senza tempo e riconciliarsi con ciò che eravamo altrove, non ora e non qui, tra i sogni e le angosce di chi è stato diverso, insoddisfatto prima di noi. E sentire ancora un futuro tra le mani, qualcosa in cui credere. Se poi, seguendo le vicende del Rondò, si dovesse avvertire una disgraziata affinità elettiva, allora questo libro diventa un manifesto di lotta al disimpegno: un invito ad accettare come siamo solo per il gusto di annullare quel sé, perché oltre la paura a guardarsi dentro c’è tutta la pienezza di scoprirsi parte di un cosmo.

Alessandra Pogliani
Ostile al disordine e col cruccio di venire a capo dell’anarchia del mondo, per contrappasso nella vita studio storia.

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