Del: 11 Settembre 2021 Di: Luca D'Andrea Commenti: 0

Gli attentati dell’11 settembre sono stati l’anticamera della configurazione attuale del mondo in cui noi giovani ci siamo trovati a vivere. Le conseguenze politiche e geopolitiche hanno segnato questo ventennio e hanno avuto riflessi anche in aspetti della nostra quotidianità, come la maggior rigidità dei controlli di sicurezza. Gli attacchi sono stati subito visti come un atto di guerra contro gli Stati Uniti e l’Occidente, “un nuovo tipo di guerra”, li definì Bush in un discorso ai cittadini americani, in cui sostenne la necessità di un intervento militare.

L’attacco all’Afghanistan era giudicato inevitabile e già nelle ore successive agli attentati alcuni commentatori pensavano potesse avvenire nel giro di pochi giorni.

Lo “stato canaglia” comandato dai talebani, infatti, era giudicato colpevole perché ospitava Osama Bin Laden, la mente dietro l’attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono, nonché il terrorista numero uno al mondo. Le operazioni iniziarono dopo un ultimatum da parte dell’amministrazione Bush verso i Talebani, caduto a vuoto, con cui sostanzialmente gli Stati Uniti chiedevano al governo di Kabul di porre fine a ogni rapporto con il terrorismo islamista, di consegnare i leader di Al Qaeda (tra cui Bin Laden) e di liberare i cittadini stranieri detenuti. Fu così che il 7 ottobre, poco meno di un mese dopo gli attentati, Bush tenne un discorso alla Nazione annunciando l’inizio della guerra contro l’Afghanistan col supporto di un’ampia coalizione internazionale: «Su mio ordine, le forze militari degli Stati Uniti hanno iniziato gli attacchi contro i campi di addestramento dei terroristi di Al Qaeda e contro le installazioni militari del regime dei Taleban in Afghanistan. Queste azioni attentamente mirate hanno come fine quello di distruggere l’uso dell’Afghanistan come base terroristica e di attaccare le capacità militari del regime dei Taleban». 

Nel giro di un mese i Talebani abbandonarono Kabul, ma la guerra continuò per sostenere il nuovo governo afghano e per sradicare le cellule terroristiche dall’Afghanistan. Nel maggio del 2011 gli americani portarono a termine con successo l’operazione Nepture Spear, uccidendo in Pakistan Osama Bin Laden e portando il popolo statunitense in piazza a festeggiare come per un’importante vittoria sportiva. Nonostante questo la guerra in Afghanistan continuò ancora per dieci anni, fino al repentino ritiro del mese scorso. 

L’altro pesante intervento statunitense all’interno di quella che è stata definita “guerra al terrore” fu l’invasione dell’Iraq nel 2003, giustificata da parte dell’amministrazione Bush con prove false riguardanti un presunto appoggio al terrorismo islamista da parte del dittatore Saddam Hussein e la presenza di armi di distruzione di massa in territorio iracheno. Saddam fu deposto e giustiziato nel 2006, ma la guerra continuò fino al 2011.

Le conseguenze del conflitto furono lo scoppio di una guerra civile e, come causa indiretta, la formazione dell’ISIS, con tutto quello che questo ha comportato nel paese mediorientale e nel resto del mondo.

Il bilancio di questi due conflitti è piuttosto pesante: in Afghanistan si parla di più di 70.000 vittime civili e in Iraq più di 100.000, mentre tenendo conto di entrambe le guerre si registrano quasi 10.000 morti tra i soldati della coalizione internazionale e 100.000 tra commilitoni fedeli a Saddam o ai Talebani. Non vanno dimenticati inoltre i crimini di guerra di cui si sono macchiati i soldati statunitensi e in parte anche britannici, rivelati da Wikileaks tramite la diffusione di documenti militari segreti, che mettono ulteriormente in dubbio le ragioni della propaganda interventista occidentale.

A vent’anni di distanza dai terribili attentati che hanno segnato la storia recente è difficile dire cosa sarebbe successo se non ci fossero stati gli interventi in Afghanistan, in Iraq e in altre zone del mondo. Tuttavia allo stato attuale sembra chiaro il fallimento dei propositi americani e soprattutto della cosiddetta “dottrina Bush” basata sull’intervento militare preventivo e sulla ricerca di costituire: «Un internazionalismo squisitamente americano che rifletta l’unione dei nostri valori e dei nostri interessi nazionali. Lo scopo di questa strategia è contribuire a rendere il mondo non soltanto più sicuro, ma anche migliore». In Afghanistan lo sforzo economico e bellico ventennale non è riuscito a fornire l’appoggio necessario ai locali per contrastare autonomamente i Talebani. La loro presa di potere ha fatto anche rialzare la testa agli acerrimi nemici dell’ISIS, che ne han dato dimostrazione compiendo attentati terroristici. Peraltro Al-Qaeda è ancora presente nel territorio afghano, anche se il Pentagono smentisce che l’organizzazione terroristica possa costituire una minaccia simile a quella di vent’anni fa.

Per quanto riguarda l’intervento in Iraq è palese il fallimento del tentativo americano di esportare un modello democratico per stabilizzare il paese. Lo scontento popolare per la corruzione diffusa è tangibile e l’allarme terrorismo è concreto, nonostante il governo porti avanti azioni antiterroristiche che spesso hanno successo. Cosa ci riserverà il futuro è impossibile da dirsi, certo è che l’Afghanistan potrebbe diventare un terreno fertile per la rinascita del jihadismo globale, messo in difficoltà dalle azioni militari recenti, e soprattutto le vicende delle ultime settimane potrebbero far scuola in altre zone del mondo e questo è uno scenario di cui l’Occidente deve tenere conto.

Luca D'Andrea
Classe 1995, studio Storia, mi piacciono le cose semplici e le storie complesse.

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