Stadio Luigi Ferraris, domenica 12 settembre. Prima del fischio di inizio della partita di serie A Sampdoria-Inter, una giardiniera scende in campo e comincia a svolgere il proprio lavoro, sotto gli occhi dei tifosi della curva interista che, ad un certo punto, cominciano ad intonare cori vergognosi, alludendo ai genitali della ragazza. Il video diventa virale; sui social si moltiplicano i commenti a riguardo, tra chi sminuisce l’accaduto e chi, giustamente, si indigna e protesta; i tifosi, allora, decidono di giustificare il proprio comportamento con una sola parola, sempre la stessa, ogni qualvolta si verificano fatti di questo genere: “goliardia”. Eppure, il triste spettacolo cui abbiamo assistito domenica non può essere ridotto ad una ragazzata. Andrebbe, invece, considerato come l’ennesimo sintomo della sessualizzazione cui le donne sono costantemente sottoposte nel nostro Paese.
Il termine “sessualizzazione” indica il fenomeno per cui l’attenzione verso una determinata persona si concentra esclusivamente sul suo aspetto fisico, attribuendole disponibilità sessuale o considerandola attraente in virtù di alcune caratteristiche (generalmente, abbigliamento provocante, nudità, pose ammiccanti del corpo). Tale concetto presenta una stretta correlazione con l’oggettivazione sessuale, la quale, secondo Bartky (1990), si verifica quando «delle parti sessuali o delle funzioni di una donna sono separate dalla sua persona, ridotte allo stato di mero strumento o guardate come se fossero capaci di rappresentarla nella sua interezza».
Fredrickson e Roberts (1997) hanno sottolineato come, in questo modo, i corpi femminili vengano considerati meri strumenti del piacere e del desiderio maschili, riducendo le donne stesse a oggetti di consumo interscambiabili. Quando sono oggettivate, le donne sono inoltre portate a interiorizzare la prospettiva giudicante dell’osservatore e a trattare sé stesse come oggetti, da valutare soltanto sulla base dell’aspetto fisico: fenomeno che prende il nome di “auto-oggettivazione” e che si verifica in modo analogo anche in termini di sessualizzazione, conducendo alla cosiddetta “sessualizzazione interiorizzata”.
La convinzione di dover essere sessualmente attraenti in funzione dell’apprezzamento maschile comincia a mettere radici nella donna sin dalla sua adolescenza, a causa dei messaggi sessualizzanti veicolati dalla società soprattutto tramite i mass-media.
Negli anni del boom economico seguito alla Seconda guerra mondiale, gli spot televisivi aventi ad oggetto elettrodomestici e prodotti per la pulizia della casa vedono come protagonista uno stereotipo di donna appartenente alla classe borghese, casalinga, cui si promette una maggiore liberazione dagli impegni domestici tramite l’impiego dei prodotti promossi. A partire dagli anni Settanta, invece, le campagne pubblicitarie cominciano a diffondere, accanto all’immagine rassicurante della moglie e madre dedita alla cura della casa, quella della donna seduttrice, la cui bellezza fisica viene utilizzata per attirare l’attenzione del destinatario maschile.
Il corpo femminile, di cui spesso vengono messe in mostra soltanto le parti in grado di accendere l’immaginario erotico degli uomini, viene associato al prodotto, riducendo la donna a oggetto nelle mani del consumatore. Ancora oggi, alcune pubblicità attribuiscono alle figure femminili ruoli decorativi e sessualizzanti; si ricorre ad un vestiario provocante e le si ritrae come sessualmente disponibili, mentre gli uomini sono rappresentati in modo attivo. Questa tendenza è spiegabile tramite il concetto di doppio standard, impiegato da Susan Sontag nel 1999 per indicare diverse aspettative legate ai generi: nella nostra società, gli uomini vengono considerati per quello che fanno, mentre le donne sono più spesso valutate sulla base del loro aspetto fisico.
E così, nonostante il protocollo firmato nel marzo 2014 da ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani) e IAP (Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria), volto a consolidare modelli di comunicazione rispettosi della dignità della donna e del principio di pari opportunità, anche in tempi recenti ci si è facilmente imbattuti in campagne pubblicitarie sessiste. Assai diffusa e particolarmente aberrante è la prassi secondo la quale il corpo femminile viene utilizzato per pubblicizzare della carne, come avvenuto nel caso di un manifesto affisso nel 2017 dal Centro carni Marchiante a Legnano, in provincia di Milano.
In esso, una giovane donna, vestita di rosso e con indosso un paio di tacchi a spillo, si trova sdraiata su di un tavolo, circondata da diversi tagli di carne e di fatto associata ad un animale da macello. Ancora, nel gennaio 2020, in provincia di Rimini, era apparso un cartellone pubblicitario della Macelleria Ugolini, poi censurato, raffigurante “il corpo di due donne riprese da tergo, in abbigliamento intimo, con i fondoschiena in primo piano, uno apparentemente più tonico dell’altro”. Sopra, la dicitura “La carne non è tutta uguale”.
Tuttavia, questo fenomeno non si manifesta soltanto nell’ambito pubblicitario: oltre che sui social, anche sui giornali accade che il corpo femminile venga sessualizzato, talvolta persino mentre si affrontano temi estremamente delicati, che richiederebbero di mettere al centro la donna in quanto persona, non in quanto corpo.
Un esempio è dato dal modo in cui Repubblica ha trattato un caso di cronaca recente: la morte di Chiara Ugolini, uccisa nel Veronese lo scorso 5 settembre da un vicino di casa, mentre si trovava nel proprio appartamento. Un articolo del noto quotidiano nazionale avente ad oggetto questa vicenda si apre infatti con una descrizione fisica della vittima, forse volta ad attirare l’attenzione del lettore, in ogni caso presentandola come attraente e in grado di accendere i desideri sessuali del proprio carnefice. Proseguendo nella lettura, ci si imbatte inoltre in una serie di dettagli, irrilevanti ai fini della ricostruzione dei fatti, aventi sempre ad oggetto il corpo della ragazza uccisa, nonché la sua biancheria intima. In questo modo si finisce per ottenere un effetto opposto a quello che si voleva probabilmente raggiungere, alimentando quella stessa cultura e quella stessa mentalità che hanno portato alla morte di Chiara Ugolini, così come di molte altre donne.
Anche nel mondo dello sport le atlete si sono spesso trovate a dover combattere contro la sessualizzazione dei propri corpi: durante i campionati europei, la nazionale norvegese di beach handball è stata multata, in quanto le giocatrici avevano scelto di indossare, anziché gli slip previsti dal regolamento, un paio di calzoncini simili a quelli usati dai propri colleghi uomini. Quest’estate, la campionessa paralimpica Olivia Breen ha invece raccontato di essere rimasta sorpresa dal commento di una funzionaria di gara ai campionati britannici: essa aveva descritto gli slip indossati dalla Breen per gareggiare come “troppo corti e inappropriati”, ancora una volta mettendo in evidenza come il corpo della donna venga continuamente sessualizzato e dunque guardato sotto due sole possibili prospettive: come qualcosa da mettere il più possibile in mostra per soddisfare i desideri degli uomini, oppure come qualcosa di volgare che necessita di essere nascosto, anche a costo di suggerire alle atlete di indossare un vestiario meno comodo, come nel caso della Breen.
Molte atlete stanno però dimostrando una ferrea volontà di cambiare le cose. Oltre al gesto di disobbedienza portato avanti dalla nazionale norvegese, si deve infatti ricordare la decisione della ginnasta tedesca Sarah Voss, che lo scorso aprile si è presentata agli Europei di ginnastica artistica di Basilea indossando una tuta lunga fino alle caviglie, anziché il classico body a taglio corto. «Le tute corte – aveva spiegato la Voss – sono simili a costumi da bagno e possono essere considerate provocanti all’esterno e far provare vergogna a chi le indossa, anche per via dei movimenti che dobbiamo fare», veicolando così due messaggi importanti: la necessità di porre fine alla sessualizzazione nello sport, da un lato, e quella che tutte le atlete possano essere libere di scegliere cosa indossare, così da sentirsi a proprio agio mentre gareggiano. La decisione è stata condivisa anche dalle compagne della Voss, che a Tokyo 2020 hanno indossato tute del medesimo tipo.
Si tratta di azioni apparentemente di scarsa portata, simboliche, ma in realtà fondamentali per cominciare a contrastare la sessualizzazione femminile e le gravi conseguenze che essa porta nella nostra società.
È stato infatti dimostrato che questo fenomeno contribuisce, in entrambi i sessi, a maturare un maggiore sostegno nei confronti di idee sessiste e atteggiamenti negativi verso le donne. Inoltre, la diffusione di immagini che ritraggono queste ultime in modo sessualizzato, promuove, secondo Penone e Spaccatini (2019), una maggiore tendenza a spostare la responsabilità di violenze e molestie sessuali sulle vittime stesse (atteggiamento noto con il nome di victim blaming).
Per poter combattere questo problema in modo efficace, non dobbiamo inoltre dimenticare come esso vada a colpire in particolare le donne nere, dal momento che in questo caso le questioni legate al genere vanno ad intersecarsi con discriminazioni da esse subite in ragione della loro etnia, secondo un fenomeno per indicare il quale, nel 1989, la docente universitaria Kimberlé Crenshaw coniò il termine “intersezionalità”. Come ricordato da Angela Davis nella sua opera Donne, razza e classe (1981), a seguito della Guerra civile le aggressioni nei confronti dei neri da parte di uomini bianchi cominciarono ad essere giustificate coniando il mito dello stupratore nero, secondo il quale gli uomini neri risultavano essere maggiormente propensi ad usare violenza nei confronti delle donne bianche a causa dei loro desideri sessuali irrefrenabili e animaleschi.
In una società in cui il maschilismo era pervasivo, infatti, gli uomini bianchi, motivati dal dovere di difendere le proprie donne, avrebbero potuto essere scusati di ogni possibile eccesso. L’invenzione di questo mito ha finito per alimentare un altro stereotipo: quello della donna nera “facile” e promiscua, desiderosa delle attenzioni sessuali dei bianchi, con una conseguente ipersessualizzazione del suo corpo che prosegue anche nella nostra società.