Si spalancano nuove soglie per il Marvel Cinematic Universe, e il 2021 si tramuta nel suo anno più evolutivo. L’introduzione della nuova piattaforma streaming targata Disney lascia libero spazio e novizi esperimenti alla categoria che gli studi Marvel prediligono: l’intrattenimento. Nel tentativo di uniformarsi alle ultime tendenze del consumo cinefilo, Disney propone la sua versione esclusiva di trasmissione episodica, e inserisce le serie tv nel suo vasto catalogo.
Ma, per quanto intrigante, il nuovo tragitto intrapreso dalla sede dei supereroi di Stan Lee desta a primo impatto alcune titubanze: la megalomane notorietà della Marvel è relegata prettamente al robusto effetto che le sue pellicole traboccanti di azione rilasciano sullo spettatore, seduto di fronte al grande schermo; perciò, come può ora essere resa altrettanta giustizia a dei prodotti destinati alla visione domestica, lontana dall’esperienza immersiva concessa dalle sale cinematografiche?
Eppure, la sorpresa si disvela positivamente riuscita e per la prima volta non è la mera azione sbalorditiva e satura di effetti speciali ad essere privilegiata, bensì una maggiore introspezione di trame dedicate a personaggi che mai prima avevano occupato ruoli così protagonisti: ora assumono parti tutt’altro che marginali grazie alla valorizzazione che questo nuovo spazio gradualmente dispiegato offre.
Fa ritorno così sui piccoli schermi l’antieroe più adorato del mondo fumettistico e cinematografico: Loki, il Dio dell’inganno interpretato dal formidabile Tom Hiddleston, è pronto a manifestare ogni sfaccettatura di quella illustrazione che prima aveva sempre cercato di collocarlo schematicamente solo nel ruolo dell’antagonista, rivale per eccellenza degli Avengers, nonostante – come si ricorda nella stessa serie – sia grazie alla sua disfatta che questi abbiano assunto valorosa grandezza.
E allo stesso modo la Wanda di Elizabeth Olsen, affiancata dall’atipico compagno Visione impersonato da Paul Bettany, si catapulta in un viaggio così magicamente e filosoficamente stimolante da condurre la serie a ben tre candidature agli Emmy questo settembre.
La Marvel si diletta da sempre a giocare per arginare l’amarezza di una schiettezza di codice che di rado gli è appartenuta, ma le vicende che racconta questa volta non sono poi così serafiche e mansuete come sembrerebbe in superficie.
La subordinazione di Loki a una totalitaria e burocratica associazione quale la TVA, che dichiara di governare il corso del tempo, definendone la linearità e tutelandone ogni variazione al fine di proteggere la “sacra cronologia degli eventi”, onde evadere dalla tediosa minaccia di un caotico “multiverso”. L’idea di un ordine corretto che, se non più artificialmente e autoritariamente imposto, possa generare conseguenze fatali è una inquietante e orwelliana rivisitazione che suggerisce la presunta assenza del concetto di libero arbitrio, e lo sistema nella astrazione più remota; non si può fare altro che ridere istericamente dinanzi a qualsiasi “glorioso proposito”.
L’epilogo della serie delinea una sensazione di sbigottimento, laddove la rottura dell’ordine prediletto è sinonimo anche della distruzione dell’ego più recondito del protagonista, che fallisce per redimersi ma, a contatto con le sue stesse “varianti” provenienti da linee temporali alternative, esplora ogni istanza del suo essere, pressappoco arrendendosi ai propri falli in funzione di una maturazione della versione migliore di sé.
Loki è il personaggio più caratterizzato dell’intero universo Marvel. Seppur da sempre nei film fosse stato congegnato come fratellastro adottivo nonché ombra del potente Thor, il suo velo enigmatico e lacerato dal rammarico del voltafaccia, la sua aura saccente e meschinamente autoreferenziale lo rende incredibilmente accattivante, il suo misterioso e disperato desiderio di gloria lo conduce ad azioni alquanto discutibili e tutt’altro che democraticamente compatibili con le classiche morali dei film che precedono. Tuttavia, il modo in cui racconta sé stesso e le intenzioni che lo circondano desta interessanti interrogativi, quasi come se le sue parole, in fondo, nascondessero una verità che nessuno di noi vorrebbe mai accettare.
E in questa serie tutto si riconferma, perché tutto gravita attorno a una realtà inaccettabile per quanto affliggente, e il cruccio di un singolo personaggio si tramuta nell’ansiogeno spaesamento di una intera convinzione: la libertà, come intesa nel linguaggio comune, non esiste più, o non è mai esistita. La serie spazia dal rallegrante umorismo all’insaziabile sete di risposte a quesiti più abissali, un’altalena di emozioni che anche WandaVision ci tiene a disporre, seppur in maniera diversificata.
Con Wanda, alias Scarlet Witch, si apre la parentesi del controllo quasi inconsapevole, manipolante e identificato come esasperatamente necessario della realtà circostante, in una cornice in cui il dolore offusca ogni forma di consapevolezza collettiva e riversa ogni frustrazione sul singolo, rendendolo avversario universale, in un idillio stregato e straniante, sospeso fuori dal mondo. WandaVision parte con la frivolezza di un gioco di prestigio inoffensivo, di un situazionismo vintage perché aggraziato e amabilmente senza pesantezza. Non rinuncia a disorientare, ma emerge sinistramente confortante, soddisfacente alla sua distinta maniera, perché, citando un assaggio dell’ultima puntata, «che cos’è il lutto, se non amore che perdura?».
Wanda costruisce inavvertitamente un mondo compatibile alle sue più intime nostalgie, attraversando varie epoche televisive con un semplice schiocco di vita, come a non averne mai abbastanza delle concessioni di un tempo rispetto al seguente. Una inesausta e tragica fame di felicità che preme nelle risate di accompagnamento a stile sitcom, ma che scoperchia il suo lato oscuro e distopico nelle voci oppresse dei cittadini di Westview a lei assoggettati, quasi a sottolineare l’impossibilità di una eterna evasione dalle nefaste difficoltà della vita, senza in alcun modo danneggiarne il suo equilibrio.
Perché ora la Marvel custodisce questo nuovissimo rimando all’idea di equilibrio interrotto, stravolto e pericolosamente fragile da mantenere, seppur così possente nell’importanza che gli è attribuita. La narrazione si fonda sulla latenza inesplosa di smarrimenti, stretti ai propri incubi, materializzati come le cose che più si difendono.
Forse non un’irregolarità, ma di sicuro, nella (e nel) Visione di Wanda, nella Sylvie di Loki, vi è la ricaduta dell’umano dietro il sovrumano: una parentesi di desolazione e di speranza, dove l’amore trionfa in scenari apocalittici e frattanto imperturbabilmente romantici.
Pertanto, adesso la casa con capo esecutivo Kevin Feige semina il futuro del suo legame con il pubblico, avviando la fase 4 con la sconcertante inaugurazione del Multiverso, un disordine primitivo e fatale, l’apoteosi di ogni forma di sbigottita perdizione o dissidio, e saranno probabilmente proprio coloro che lo hanno dischiuso a tentare di aggiustarlo. Gli eroi imperfetti della innovativa fase, carichi di difetti e altrettanto fecondi di dettagli da devolvere, testimoniano la sconfitta dello stereotipo rigido e settario del cattivo contro il buono, in quanto «nessun buono è mai veramente buono, e nessun cattivo è mai veramente cattivo.»