Del: 20 Settembre 2021 Di: Martina Di Paolantonio Commenti: 0
Pillole di economia. Il "costo" della guerra

Le tematiche di carattere economico rientrano senza dubbio nel ventaglio di argomenti spesso difficili da comprendere a fondo per chi non ne ha mai approfondito lo studio. Abbiamo deciso di dare vita a questa rubrica nella quale cercheremo di sviscerare, con il linguaggio più semplice e accessibile possibile, vari temi economici legati all’attualità. A questo link trovate le scorse puntate.


Il recente ritiro delle truppe americane in Afghanistan e il ventennale dell’attacco alle Torri Gemelle hanno portato inevitabilmente sia i media che la politica a raccontare e discutere la guerra sotto più accezioni, tra le quali quella economica. Ecco, quindi, che giornali e conferenze stampa hanno dato sfogo a stime sulle spese della guerra e sulle prospettive future e a riflessioni sulle perdite e i guadagni che essa comporta, utilizzando spesso l’espressione “costo della guerra”.

Ma cosa si intende per costo di una guerra?

Quando si parla di “costo”, in economia si intende l’insieme delle spese di produzione di un bene o di un servizio. Se prendiamo ad esempio una redazione di un giornale, i costi corrispondono alle spese sostenute per la produzione dello stesso (la retribuzione di chi ci lavora, la carta, la stampa…). Nel contesto bellico è difficile pensare a un’idea di costo aderente a questa definizione, in quanto non si ha una produzione di beni in senso stretto, ma sicuramente non si può ignorare il sacrificio richiesto per sostenerla, sia economico, sia umano.

Quando parliamo di “costo della guerra” stiamo quindi utilizzando semplicemente un modo di dire? Non proprio. Una componente economica è chiaramente presente, ma quando si intende parlare dell’insieme delle conseguenze della guerra sull’economia di una società sarebbe più corretto definirlo “danno economico”.

Sostenere uno scontro bellico implica sì un costo finanziario (questa volta il termine è utilizzato propriamente) che ricade sulle casse dello Stato, ma anche una distruzione di beni economici (pensiamo ai mezzi, alle abitazioni,…) pubblici e privati che colpirà inevitabilmente anche i cittadini futuri, nonché la perdita di vite umane che costituivano una ricchezza sul piano umano, su quello sociale e su quello economico, contribuendo con il loro lavoro alla produzione di beni. Il sostegno di una guerra per uno Stato porterà inoltre a un aumento dell’inflazione (della quale potete trovare qui una spiegazione) e, come se non bastasse, a un aumento del debito nei confronti dei Paesi esteri e dei cittadini. Questo debito viene peraltro accumulato per finanziare il necessario per affrontare un’attività come la guerra, che è sostanzialmente improduttiva dal punto di vista economico, e lo stesso peserà per molto sulle generazioni future.

Nel caso specifico della guerra in Afghanistan, il costo sostenuto in termini finanziari è stato enorme. Già nel 2012 ilPost osservava come questa fosse la seconda guerra più costosa per gli Stati Uniti, preceduta solamente dalla Seconda Guerra Mondiale; costo che è sicuramente da imputare a un aumento dei prezzi di armi che sono sempre più sofisticate, e a una maggiore capacità dello Stato, cresciuto economicamente dal 1945, di sostenere le spese.

Se guardiamo oggi quanto è costata la guerra al terrorismo (quindi non solo in Afghanistan) agli Stati Uniti,  il progetto della Brown University di Princeton “Costs of war” stima 5 800 miliardi di dollari utilizzati per finanziare la lotta al terrorismo post 11 settembre 2001. La cifra comprende non solo le spese belliche, ma anche le future spese mediche e assistenziali per i veterani e quelle per la prevenzione del terrorismo sul territorio nazionale (solo queste hanno richiesto 1 117 miliardi di dollari). Il progetto della Brown non ha tenuto conto solo di questi costi finanziari, ma anche del computo delle vittime, stimate a 801mila tra civili e militari in Afghanistan, Iraq, Yemen, Pakistan, Siria e altri Paesi.

A un costo sostenuto da qualcuno corrisponde poi un guadagno per qualcun altro.

Già nel 1935 il generale dei Marines Smedley D. Butler, non facendo segreto del fatto che dalla guerra derivassero grandi profitti per alcuni, sosteneva che: «La Guerra è un racket. […] L’unico i cui guadagni si contano in dollari, e le perdite in vite umane.»

Dai dati dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI) riguardo i produttori di armi, è possibile osservare quanto, se tanto grandi sono le spese da parte degli Stati in guerra, altrettanto lo sono i profitti delle compagnie che forniscono i mezzi per combatterla. Tra le prime dieci della lista presentata dal Global Research rientra anche l’italiana Finmeccanica SPA, al nono posto con 100 milioni di dollari di profitti nel 2013. Al primo posto si trova invece l’Americana Lockeed Martin, che conta 3 miliardi di dollari in profitti ottenuti grazie alla produzione di aerei da combattimento e missili marittimi e terrestri.

Per rispondere, quindi, alla domanda se sia corretto parlare di “costo di una guerra”, possiamo ora affermare che, se ci attenessimo alla definizione dell’economia politica, dovremmo considerare all’interno dell’espressione solamente i costi finanziari, anche se sicuramente a livello comunicativo risulta particolarmente efficace utilizzare l’espressione in senso lato, in termini non solo economici, ma anche di sforzi e sacrifici che l’impegno bellico richiede.

Martina Di Paolantonio
Dal 1999 faccio concorrenza all'agenzia di promozione turistica abruzzese, nel tempo libero mi lamento per qualsiasi cosa.

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