Del: 21 Settembre 2021 Di: Luca D'Andrea Commenti: 0

Radici racconta fatti, personaggi e umori della storia della Prima Repubblica italiana, dal 1946 al 1994. A questo link è possibile trovare gli articoli precedenti della rubrica. 


La strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 fu un punto di svolta nella storia della lotta armata in Italia. L’iniziale tentativo da parte delle autorità di dare la colpa agli anarchici e di coprire la reale matrice neofascista di quell’attacco rappresenta per molti militanti di sinistra una conferma delle proprie idee, ovvero che nel paese fosse in atto una svolta autoritaria di tipo fascista appoggiata dall’apparato statale.

Come spiega Giorgio Bocca nel suo libro Il terrorismo italiano la sensazione diffusa era la seguente: «la polizia insabbierà, la magistratura darà una mano, i partiti dell’opposizione fingeranno di non capire e di non vedere». A questo si aggiunse l’idea, molto diffusa, secondo la quale la Resistenza partigiana fu una rivoluzione mancata. Questi fattori determinarono la decisione di molte persone a intraprendere la strada della lotta armata.

Questa presa di coscienza nacque negli ambienti universitari e operai, interessati dalle lotte della contestazione giovanili del ’68 e dell’Autunno caldo.

La storia delle Brigate Rosse iniziò con la nascita del Collettivo Proletario Metropolitano, un’organizzazione di estrema sinistra fondata, tra gli altri, da Renato Curcio e Mara Cagol, personaggi di spicco nella storia del brigatismo e provenienti dal mondo universitario, che si avvicinarono così alla galassia operaia milanese della Sit Siemens e della Pirelli. Successivamente i componenti erano intenzionati a dare a questa organizzazione una struttura più centralizzata e perciò nacque Sinistra Proletaria, ma passò appena un anno e Curcio, Cagol e Franceschini decisero di entrare in clandestinità per aderire a pieno alla lotta armata. 

È difficile identificare precisamente la data e il luogo di fondazione delle Brigate Rosse, in ogni caso gli analisti sottolineano l’importanza di alcuni incontri: il primo all’hotel Stella Maris di Chiavari, organizzato dal Collettivo Proletario Metropolitano nell’autunno del ’69, dove secondo alcune testimonianze, smentite da altre, fu deciso di intraprendere la lotta armata. Il secondo, in base a quanto raccontato da un brigatista torinese, fu un congresso di più giorni organizzato in un piccolo comune in provincia di Reggio Emilia, sempre nel ’69, in cui parteciparono molti brigatisti che sarebbero stati protagonisti del movimento negli anni successivi. Infine, il convegno di Pecorile dell’agosto ’70 in cui, come spiega Franceschini, si decise davvero il passaggio alla clandestinità: «Ci ritrovammo lì in un centinaio, militanti da tutto il Nord, per decidere il passaggio alla lotta armata».

Qualche mese prima, in aprile, esponenti della banda “XXII ottobre” riuscirono a interrompere per qualche istante il telegiornale RAI per diffondere un breve comunicato: «Attenzione, sono i Gap che vi parlano. È nata una nuova resistenza di massa, è nata la ribellione operaia al padrone, allo Stato dei padroni, all’ imperialismo straniero, sono nate le Brigate rosse e si sono ricostituite le Brigate Gap».

I protagonisti della nuova formazione clandestina, le Brigate Rosse, provenivano dall’Università di Trento, come Renato Curcio e Margherita Cagol, dalla federazione giovanile del PCI di Reggio Emilia, come Alberto Franceschini e Prospero Gallinari e dalle fabbriche, come Mario Moretti. Il gruppo traeva ispirazione dai movimenti, spesso marxisti, che infiammarono l’America Latina negli anni ’50 e ’60 come i tupamaros uruguaiani, nati per supportare la fascia povera della popolazione e trasformatisi poi in gruppo armato organizzato in colonne, proprio come furono le BR. 

La prima volta che il nome delle Brigate Rosse apparì sulle colonne del Corriere della Sera fu il 28 novembre 1970 in riferimento a delle agitazioni all’interno della Pirelli.

Durante queste agitazioni qualcuno cercò di incendiare l’automobile del capo dei servizi di vigilanza dell’azienda, Ermanno Pellegrini, parcheggiata sotto casa sua. Lo stesso Pellegrini, dopo l’atto intimidatorio, andò a sporgere denuncia raccontando di un volantino firmato brigate rosse che circolava in azienda e in cui era presente il suo nome in una lista di “servi del popolo”. Nei mesi e negli anni successivi le azioni brigatiste si moltiplicarono e si aggravarono fino ad arrivare a rapimenti, gambizzazioni, atti d’intimidazione e omicidi che sconvolsero il nostro paese, come quello dell’onorevole Aldo Moro. In totale, secondo la celebre inchiesta televisiva condotta da Sergio Zavoli nel suo programma La notte della Repubblica (tutt’ora integralmente disponibile su Rai Play) tra il 1974 e il 1988 le Brigate Rosse rivendicarono 86 omicidi.

Luca D'Andrea
Classe 1995, studio Storia, mi piacciono le cose semplici e le storie complesse.

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