Del: 28 Ottobre 2021 Di: Luca Pacchiarini Commenti: 0

È in scena al Piccolo Teatro di Milano l’Arlecchino servitore di due padroni con protagonista l’attore Enrico Bonavera. Vulcano lo ha intervistato, indagando la sua esperienza di attore, le figure che lo hanno influenzato e la sua opinione sulla funzione del teatro nella società moderna.


Che studi ha fatto? Che esercizi fa per prepararsi allo spettacolo?

Io ho una formazione poco accademica, nel senso che vengo più da un’esperienza legata al terzo teatro: Barba, Grotowski, sei/sette anni con un gruppo con cui abbiamo sviluppato una nostra ricerca, un nostro studio; poi sono entrato in una compagnia veneta diretta da Carlo Bosio e lì sono entrato nella commedia dell’arte. Di esercizi sono oramai più di 30 anni che pratico taijiquan e chi kung.

Sulla brochure dell’Arlecchino servitore di due padroni si legge che la commedia dell’arte e le maschere l’hanno inseguita nella sua vita, in che senso?

Diciamo che quando io ero al liceo e all’università proprio la commedia dell’arte non interessava, la legavo molto a Goldoni e lui era un autore che al di là del divertimento non mi attraeva, mi interessava tutt’altro: teatro politico soprattutto, mi piacevano la ricerca e la sperimentazione, soprattutto all’Odin Teatret ed in generale tutto questo mondo, anche perché avevo tutta una prospettiva e visione del futuro, anche utopistica (e profetica visto quello che faccio oggi). Però sì, son le maschere che mi hanno inseguito.

Chi è o cos’è Arlecchino secondo lei Arlecchino?

È un po’ come il tao, non si può definire. Nel senso che è un tipo di personaggio molto antico, molto naif: il tipo di psicologia di Arlecchino è molto più vicina a quella di tanti ragazzi extracomunitari che arrivano e hanno perso tutto, che si possono basare soltanto sulle proprie risorse, se ne hanno: altrimenti si vanno a perdere. C’è una storia che mi ha molto commosso del giocatore del Genoa, squadra per cui tifo, Kallon: a 14 anni è stato mandato via dalla famiglia perché dove viveva rischiava di diventare un ragazzino soldato, gli hanno dato quattro soldi e lui ha cominciato a correre verso il nord, è riuscito ad arrivare in Libia (si è salvato lui rispetto ad altri suoi compagni che sono morti durante il viaggio), lì è riuscito a raccogliere i soldi per poter pagare il barcone ma glieli hanno rubati, ha ricominciato e ha visto di tutto, è stato anche fortunato perché si è imbarcato in un barcone che nel giro di pochi giorni è arrivato in Italia, dove è stato preso e accudito, ma è riuscito dopo 8 mesi a chiamare casa: per ben 8 mesi i suoi non sapevano nulla di lui! Studiò e imparò l’italiano e siccome era molto bravo a giocare a pallone è riuscito a entrare in serie A; quando vidi l’intervista che gli fecero a proposito mi sorprese parecchio come da allegro e gioioso passò a scurissimo: è una storia di dolore e tragedia. Ecco, diciamo che in Arlecchino c’è una tragedia del vivere che lui risolve con ottimismo, con voglia di essere nel presente, ma non fa ipotesi sul futuro perché non ne ha possibilità, prende delle bastonate e poi si dà una scrollatina.

Com’è e cosa vuol dire per lei interpretare questo personaggio? Anche visto che lei fu allievo di bottega di Soleri e questo personaggio l’aveva già fatto in passato per poi tornarci negli anni 2000

È un’esperienza umana interpretare Arlecchino. Sai, quando si inizia un lavoro magari si è già alla fine, nel senso che becchi subito le cose giuste; poi nel processo di apprendimento ti perdi perché è una perdita di senso apprendere un’arte, poi questa la si recupera quando si ha una maturità. È un tipo di percorso un po’ antico questo, perché il percorso di un allievo di bottega è diverso da quello dello studio di un intellettuale, anche se credo che anche in un percorso di università si dovrebbe pensare ad un tipo di percorso più pratico dove possibile, voglio dire a lettere non ti fa scrivere nessuno fino alla tesi, non c’è esercitazione.

Mentre è Arlecchino, dov’è Enrico Bonavera? 

Lo segue e lo guida. Si dice che un attore deve avere più di un cervello, cioè deve utilizzare diverse parti del cervello che normalmente non si utilizzano nel quotidiano, mi spiego meglio: devi seguire il tuo personaggio e lasciarsi attraversare, ma devi condurlo in relazione agli altri personaggi, fondamentalmente recitare significa ascoltare e reagire a quello che ti arriva, non tanto fare qualcosa; ma allo stesso tempo c’è il problema dell’ascolto del pubblico: bisogna essere al centro di tutto questo. Quando prevale un aspetto, per esempio vedo che va tutto bene e prevale Enrico, devo stare attento perché se no arlecchino mi frega… è difficile da spiegare a parole.

Siccome Arlecchino è una maschera immortale e come tale riesce a dire qualcosa al suo pubblico in ogni epoca, secondo lei cosa riesce a dire alla nostra epoca?

In parte risposi anche prima, Arlecchino è una funzione un po’ archetipica: il fatto che sia così riconosciuto anche all’estero è perché va a coincidere con l’archetipo del buffone, della scimmia primordiale, dell’uomo quand’è nato insomma, come la scimmia in 2001 Odissea nello spazio se vogliamo, però la sua forza sta nella sua rigenerazione e nel suo modo di affrontare la realtà, di metabolizzare l’esperienza per proseguire nella sua esperienza di vita: è lo stupore che qui è importante, che noi ci perdiamo molto perché persi con il cellulare e con le cose, siamo sì informati ma rischiamo di non stupirci più: lo stupore richiede silenzio; una cosa che mi piace molto è la sensazione che il pubblico sia tornato bambino.

Poi dietro c’è anche l’archetipo del teatro e in questo il servitore di due padroni è proprio un simbolo, cioè muore e rinasce: spesso si pensa, e di questo io sono molto contento, che l’Arlecchino servitore di due padroni siccome è nato nel 1947 sia una specie di museo, si dice sia uno spettacolo calligrafico: invece la sfida è di renderlo vitale, che rinasce ogni volta. Altra cosa è che diversamente da chi mi ha preceduto, che era veramente un mito, io non posso essere quel mito lì: quello che posso portarmi dietro è il senso di comunità, il teatro e la compagnia teatrale è un’ideale di comunità, difficile perché ognuno ha il proprio carattere, ma poi a vincere è la squadra, all’interno del quale ci sono ruoli diversi e responsabilità differenti ma questa sensazione del teatro come qualcosa che si fa insieme, sì rispettando le differenze di gerarchie ma insieme, questa è una cosa importante: in una società che ti vuole individualista in cui devi essere vincente e lo devi essere tu solo, ma si è vincente quando si è insieme.

Prima ha nominato Ferruccio Soleri, lei ha mai sentito il peso di ereditare questo ruolo?

Sì, sì, avendo un maestro così forte ed essendo io chiamato a fare quelle azioni, mi sono confrontato con una fisicità, psicologia e modo comportamentale diverso da me e questo mi ha messo abbastanza in crisi. Nella sua eccezionalità è un modello difficile da raggiungere, un po’ come il bambino con il papà e che vuole essere come il papà: per esserlo deve anche essere se stesso; adesso ho capito che le cose sono tornate ad un Arlecchino mio, ho capito cosa volevo quando iniziai e mi sono liberato da quell’immagine… in parte me ne sono liberato, è un percorso ancora in divenire; però ecco non puoi essere vitale se non accetti di essere te stesso, essere te stesso significa anche essere diverso.

Mi son chiesto molte volte perché Soleri avesse scelto me come sostituto: fisicamente diverso, caratterialmente differente, poi mi dissi che se ha scelto me un motivo ci sarà: non me lo ha mai detto, era una persona silenziosissima e molto militare, l’unico vero complimento che mi ha fatto durante il percorso me lo fece dopo una replica a Parigi in cui io nella pomeridiana facevo Arlecchino e nella serale era invece Soleri l’Arlecchino ed io Brighella, finita la pomeridiana sono scappato perché temevo ciò che mi avrebbe detto; tornato dietro le quinte mi vesto da Brighella e dietro mi sento tirare, mi giro ed era lui: mi ha fatto il pollice in su. Conoscendo il suo carattere e la sua ritualità è stato un grandissimo complimento, i vecchi commedianti eran così eh: mica teneri.

Enrico Bonavera in scena

Secondo lei questo spettacolo è più goldoniano o strehleriano? Oppure questi due si amalgamano?

Dunque, io ho fatto molti spettacoli come attore goldoniano, anche se non mi piaceva ai tempi. Questo è uno spettacolo in cui veramente Goldoni e Strehler si fondono, non è uno spettacolo qualsiasi e né un testo qualsiasi: è un testo antico, archetipico, secondo me è medievale, non è un testo italiano ma deriva da un canovaccio francese che Sacco affidò a Goldoni e probabilmente il canovaccio si rifà a delle buffonerie, molto insolito anche ai tempi perché normalmente Arlecchino non era un protagonista, faceva delle scene ma non era mai così presente come qui. Vi sono degli archetipi dentro allo spettacolo che se si vanno a cercare sono potentissimi: morte e rigenerazione, i gemelli e la donna che si traveste da uomo, l’uomo e il rapporto con il femminile, il rapporto con la locanda, la cucina come luogo alchemico… ci sono tante robe dentro e Strehler le ha beccate tutte, istintivamente e forse non razionalmente; per cui potrei dire anche che l’Arlecchino servitore di due padroni, che in origine era solo Il Servitore di due padroni (e questo servitore volendo è il diavolo), è qualcosa che non appartiene né a Goldoni né a Strehler ma li precede, loro sono entrambi riusciti a creare un marchingegno tra inferno e paradiso.

Secondo lei nell’Arlecchino di oggi è ancora pulsante il magistero di Strehler?

Assolutamente sì, tutti sentiamo una devozione per lui. Personalmente non amo le celebrazioni però credo che il modo giusto per celebrarlo sia riconoscere in quello che facciamo il suo magistero, la sua poetica. Io entrai al piccolo la prima volta nel 1987 con l’edizione dell’Addio che, secondo me, era la summa di Strehler: questa capacità di mettere in scena le ombre delle maschere, suggerire l’invisibile; questo ha poco a che fare con l’edizione di adesso ma lo sento comunque nel finale con i candelabri e nell’ultimissimo momento, prima di spegnere l’ultima candela, sento molto questo fatto, una specie di nostalgia… finirà però ricomincerà. Ecco secondo me la maschera è melanconia, Starobinski nel suo libro Ritratto dell’Artista da Saltimbanco, parlando di vari artisti, parla della melanconia come una porta che porta verso altro, come l’armadio di Narnia che ti fa entrare in un tempo altro. Per questo secondo me è insostituibile il teatro, non ce ne libereremo tanto facilmente.

Il motto del Piccolo: “un teatro d’arte per tutti” lei cosa pensa di questa frase? È utopia o realtà?

Domanda molto grossa questa. Io sposo la frase molto come poetica: dovrebbe cioè essere un teatro d’arte per tutti in una visione, come quella di Strehler, protosocialista e utopistica, come punto di riferimento in cui si vorrebbe fare questo; anche prima di venire al Piccolo io volevo fare un teatro per cui anche il mio vicino di casa, di un quartiere popolare, lo segue: qualsiasi cosa io faccia devo emozionare, devo arrivare. Il motto del piccolo lo sento assolutamente mio, che poi ci si riesca è altro discorso, ma bisogna lavorare per quello; ci si scontra spesso con il problema della sociologia degli attori e dei registi: la loro estrazione, certe volte il narcisismo degli attori ti porta lontano da questo motto.

Nella storia l’attore è stato spesso vittima di accuse morali, secondo lei sono ancora vivi dei pregiudizi legati agli attori? Cosa rischiano oggi gli attori?

Allora, qui è cambiato tanto, la figura dell’attore si è molto imborghesita: le compagnie hanno cercato la stabilità, gli attori il riconoscimento sociale ed economico, questo tramite il cinema e la televisione; quindi, c’è stata un’osmosi fortissima tra teatro e tv, così il contesto di immaginazione dell’attore si è un po’ disciolto: le tournèe sono diventate sempre più rare e queste erano la dimensione della precarietà, ma tolte quelle sembra di essere un impiegato. Però esiste tanto teatro indipendente in questa dimensione, ora si pensa molto di più ai teatri istituzionali che alle compagnie e gli attori. Questi piccoli gruppi se la vedono ancora come un’avventura e per farlo ci vuole tanto coraggio e tanta scorza. Il problema è di sopravvivenza, in questo mondo sempre più digitale, nel momento in cui ci saranno degli ologrammi economici non si avrà più bisogno degli attori: si potrà far recitare degli attori deceduti sul palco.

Ma sarà dei piccoli gruppi la speranza e il ruolo di tenere una presenza carnale: faccio l’attore anche perché vidi uno spettacolo che mi segnò profondamente, Apocalypsis cum figuris di Grotowski, lo vidi nel 79 e ne rimasi sconvolto, cominciai a singhiozzare perché mi sentì abbandonato, finito lo spettacolo mi resi conto che la mia presenza era talmente vibrante e forte che non sarebbe più tornata, quelle emozioni e l’essere lì dentro difficilmente mi son riaccaduti. Questa emozione appartiene solo al teatro, serve la presenza viva e richiede molta saggezza e competenza, secondo me è meglio se fatto in spazi piccoli. Nel teatro greco il pubblico avvolgeva l’attore, è la comunità che si specchia tramite le grandi gesta dei personaggi, il teatro diventa anche un luogo in cui il concetto di spettacolo è limitante: esso deve essere un’occasione intorno allo spettacolo, in cui le persone possono incontrarsi, scoprire e condividere emozioni, poterne discutere, un’agorà in cui lo spettacolo è il momento di respiro emozionale: mi piace molto il chiostro del Piccolo perché cerca di compiere questo.

Qual è la forza del teatro oggi?

Ridare valore alle emozioni condivise. Certo, oggi sui social si può parlare e mettere le proprie emozioni, ma l’essere insieme è altro; nello spettacolo dell’Arlecchino una cosa bellissima è vedere i nonni, i nipoti e i genitori che ridono, ridono ancora vedendo i vicini ridere: lì viviamo tutti la stessa emozione. Il teatro dovrebbe contagiare, essere un bisogno, lavorare verso uno spettatore a cui serve il teatro.

Luca Pacchiarini
Sono appassionato di cinema e videogiochi, sempre di più anche di teatro e letteratura. Mi piace scoprire musica nuova e in particolare adoro il post rock, ma esploro tanti generi. Cerco sempre di trovare il lato interessante in ogni cosa e bevo succo all’ace.

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