Del: 3 Ottobre 2021 Di: Alessandra Pogliani Commenti: 0

A millanta miglia da Firenze, racconta Maso del Saggio in una novella del Decameron, si trova Bengodi, contrada dell’abbondanza dalle coordinate geografiche evanescenti, che trabocca di delizie senza mai conoscere la paura della carestia: le salsicce si intrecciano con le vigne, e c’è una montagna di formaggio grattugiato da cui vengon giù maccheroni come pioggia. Bengodi è il nome con cui Boccaccio chiama il paese di Cuccagna, terra di invenzione ben nota all’immaginario popolare dell’epoca: godereccia e sensuale, paradiso culinario su misura per chi non conosce la prosperità al di fuori delle fantasticherie. 

Nel medioevo, nascere poveri e patire la fame era un vicolo disgraziato da cui si usciva solo passando a miglior vita. Lo dimostrano bene sia il fiorire del motivo cuccagnesco nel folklore, sorta di compensazione onirica del desiderio mai soddisfatto di sfamarsi, sia quello che dei poveri dicevano i ricchi di allora: se si va a frugare tra i sermoni cristiani si legge che la carità era un dovere morale, ma bisognava stare attenti che non ci fosse un sovvertimento delle gerarchie sociali. Gli indigenti erano la garanzia della felicità celeste per il ricco che li aiutava: una specie di cambiavalute che restituiva, al posto della moneta donata, la salvezza dopo il Giudizio. Insomma, era necessario che ci fossero e rimanessero tali. Da qui un’elemosina bastante a sopravvivere, la minuziosa distinzione tra poveri e no, e pure una certa diffidenza verso i lavoratori, sedicenti miseri nonostante il salario e soprattutto, guaio ancor più grave, inclini alla lamentela. 

Che ne è invece della fame nel mondo attuale?

Nella Bengodi di oggi che sono i Paesi a sviluppo avanzato, terra promessa dei migranti, elisio delle patologie del benessere che può concedersi il lusso della fame per scelta e le diatribe estetiche sull’adiposità in eccesso, se ne discute a suon di obiettivi. L’Agenda 2030, elenco di traguardi per uno sviluppo sostenibile stilato dall’Onu, recita al primo punto: «porre fine a ogni forma di povertà nel mondo»Una condizione, ricorda il testo, che va ben oltre la mancanza di risorse: essere poveri significa anche un accesso ridotto all’istruzione e ai servizi di base, nonché l’esclusione dai processi decisionali.

Eppure, nonostante l’ottimismo dei programmi, a fine 2021 il mondo ha ancora parecchia fame, e i centri commerciali si espandono al costo delle baraccopoli. Le Nazioni Unite hanno annunciato che si è ben lontani dalle mete fissate per il decennio – per avere qualche numero: su Internazionale si legge che l’anno scorso 2,3 miliardi di persone non hanno potuto nutrirsi adeguatamente, e che di contro, secondo un indice della Fao, i prezzi dei generi alimentari nel 2021 sono saliti del 31%; se una persona su dieci è denutrita, una su quattro è sovrappeso. 

Perché fare confronti? Parlare di ineguaglianza anziché di povertà implica uno slittamento semantico che pare banale, e invece è enorme. La povertà si intende e misura in senso assoluto, con una soglia universale (si può calcolare la quantità di denaro necessaria a coprire il fabbisogno calorico giornaliero, e in base a quella si traccia una poverty line); la sperequazione, invece, addita una povertà relativa alla ricchezza degli altri, fatto contingente e quindi modificabile, frutto di specifiche ragioni economiche. Fare paragoni e individuare squilibri vuol dire, prima di mettere toppe qua e là, sporcarsi le mani e indagare le cause.

I paesi a sviluppo avanzato sono tali perché sono solo arrivati prima nella corsa all’industrializzazione? Di chi sono le colpe del sottosviluppo e i meriti della crescita? Sono davvero meriti endogeni?

Nel Settecento un’industria tessile esisteva anche in India: se l’India non poté difendersi dalla concorrenza inglese, finendo per diventare un paese importatore di filati e smantellare le manifatture, fu perché le sue politiche di dogana erano vincolate a quelle coloniali. Provincializzare l’Occidente e rileggere la storia della divergenza economica come integrazione disastrosa delle periferie da parte di un centro è un passaggio obbligato, se si vuol vedere negli aiuti di oggi non una benevola concessione ma un risarcimento necessario. 

E forse, data anche la fertilità della questione linguistica, sarebbe il caso di parlare più di povertà in termini relativi, dell’ineguaglianza nella sua storia. Perché purtroppo una donazione ogni tanto non basta, se non si mettono in discussione i rapporti di forza economici – anzi, il rischio è che i sussidi finiscano confinati a un gesto distratto, più funzionale al curriculum o alla coscienza che non a chi lo riceve; che i paesi rimasti indietro restino i destinatari di un aiuto subito passivamente e non i coprotagonisti di uno sviluppo integrato, in un processo unidirezionale che non conosce dialogo né riforma.

Un rischio descritto molto bene da Primo Levi in due racconti fantascientifici di qualche anno fa (Vizio di forma, 1971): nell’immaginario villaggio di Recuenco gli abitanti attendevano con trepidazione l’arrivo di una misteriosa creatura, la Nutrice, dispensatrice di cibo per tutti; con un cambio di focalizzazione, la cornucopia divina si rivelava poi un veicolo occidentale che scaricava provviste dall’alto, a casaccio, sprecandone la maggior parte per risparmiare tempo – dopotutto, commentava l’addetto alla distribuzione, quelli erano miseri anche un po’ per fannulloneria, e già tanto se li si aiutava.

In questa impermeabilità reciproca tra due mondi, soggetto e oggetto di una carità a distanza e appena sufficiente al sostentamento, è difficile non intravvedere l’ombra delle vecchie pastorali incentrate sul ricco: non è forse la stessa tentazione di pensare l’aiuto in termini di convenienza e azioni centellinate, consustanziali a un sistema che perpetua le diseguaglianze? 

Alessandra Pogliani
Ostile al disordine e col cruccio di venire a capo dell’anarchia del mondo, per contrappasso nella vita studio storia.

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