
1.192 è il numero di comuni italiani i cui residenti sono stati recentemente chiamati a esprimere la loro preferenza per l’elezione del sindaco e per il rinnovo del consiglio regionale. Il primo turno di queste elezioni amministrative eccezionalmente autunnali (la pandemia ne ha causato il rinvio) si è svolto tra domenica 3 e lunedì 4 ottobre ed è stato seguito, dove necessario, dai ballottaggi del 17-18 ottobre.
I risultati più attesi erano quelli dei sei capoluoghi di regione: Roma, Milano, Napoli, Torino (in quest’ordine le quattro città più popolose d’Italia), Bologna e Trieste. Nella città meneghina è stata subito evidente la schiacciante vittoria del sindaco uscente Sala, che si è conquistato un secondo mandato con il 58% dei voti. Anche la partita di Napoli si è conclusa al primo turno, con l’ex ministro dell’Università Manfredi che ha ottenuto il 63% dei voti, mentre a Bologna la vittoria è andata a Matteo Lepore, con un altrettanto soddisfacente 62%. In tutti e tre i casi si tratta di figure provenienti dall’area di centrosinistra, in particolare Manfredi e Lepore erano sostenuti sia dal PD che dal M5S. Per quanto riguarda Torino e Roma, invece, la sconfitta dei pentastellati è stata cocente: la candidata torinese Valentina Sganga si è fermata al 9%, mentre Virginia Raggi si è piazzata soltanto al quarto posto, dietro a Michetti (30%), Gualtieri (27%) e Calenda (la cui lista, con il 19,7% dei voti, è stata la più votata nella capitale).
Per quanto riguarda i capoluoghi al ballottaggio, i torinesi e i romani hanno consegnato l’amministrazione delle loro città ai candidati di centrosinistra Lo Russo e Gualtieri, i quali hanno sconfitto i loro avversari con ampi margini (60% contro 40%), mentre a Trieste il centrodestra ha portato a casa la sua unica vittoria con la riconferma di Dipiazza (51,29%.
Al di là delle vittorie e delle sconfitte, tuttavia, il tratto distintivo di questa tornata elettorale è stato l’astensionismo: già basso al primo turno (52,67%), il livello di partecipazione è continuato a calare al secondo (43,93%), facendo registrare un minimo storico a Torino dove solo il 42,13% dei cittadini si sono recati alle urne. Il partito di maggioranza in Italia, dunque, è l’astensione, motivo per il quale parlare di vincitori sembra essere una scelta quantomeno fuori luogo: la disaffezione dilagante dovrebbe essere il primo dato sul quale interrogarsi, pur facendo tutti i dovuti distinguo tra elezioni amministrative ed elezioni politiche. Se è vero che il centrosinistra può cantare vittoria dall’alto del suo cinque a uno, infatti, i livelli record di astensionismo sembrano confermare la tesi di chi, alla nascita del governo Draghi, aveva parlato di “fallimento della politica”. La tesi in questione era la seguente: in un momento particolarmente critico e delicato per il Paese, la politica non è stata capace di rispondere alle esigenze degli italiani e ha preferito affidare la responsabilità di prendere delle decisioni a una figura che godeva – e gode – di fiducia e rispetto a livello internazionale, di conseguenza bisogna riconoscere che la classe politica ha fallito.
La sfiducia che oggi emerge tangibilmente potrebbe essere una sensata conseguenza di questa abdicazione, senza contare il fatto che molti elettori tradizionalmente schierati a destra potrebbero aver optato per l’astensione a causa della scelta spesso inefficace dei candidati: nomi poco conosciuti, annunciati con poco preavviso (il caso di Milano, con proposte e ripensamenti, è stato emblematico e a tratti comico), che non hanno saputo (o non hanno avuto modo di) creare un rapporto di fiducia con i loro conterranei.
Un altro dato di cui non si può non tenere conto è l’assenza di figure femminili alla guida delle più importanti città italiane: solo sindaci di sesso maschile per questa tornata elettorale.
L’imbarazzante sottorappresentanza emerge in modo tanto chiaro quanto prevedibile dal momento che, sui 145 candidati alla carica di sindaco nei 17 comuni capoluogo delle Regioni a statuto ordinario, solo il 17,24% erano donne (nessuna di loro ha superato il primo turno).

Diversa la situazione per quanto riguarda le candidature alla carica di consigliere comunale, dove, sempre considerando i 17 comuni capoluogo delle Regioni a statuto ordinario, la percentuale di candidate donne era pari al 44,85%.

I distinguo tra le due cariche, tuttavia, sono d’obbligo: mentre non c’è alcuna regola che riguardi la percentuale di candidati sindaci che le forze politiche devono presentare nelle varie città, una disciplina alquanto rigida vige in merito alla parità di genere nelle liste dei candidati (“nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore a due terzi”) e nelle preferenze esprimibili dall’elettore (la regola prevede che si possono esprimere due preferenze a patto che riguardino candidati di sesso diverso).
Sembrerebbe che le donne non riescano a emergere se non per mezzo di obblighi introdotti dal legislatore, un fenomeno le cui radici possono essere ricondotte al sistema patriarcale vigente nella nostra (e non solo nella nostra) società. A tal proposito è bene ricordare che, se le donne «faticano tanto non solo ad arrivare al potere, ma anche ad avere pari retribuzione o fare carriera», non è per via della loro scarsa «aggressività, spavalderia, sicurezza di sé», come afferma il professor Barbero in un’intervista alla Stampa, perché sostenere ciò significa trascurare il ruolo che la socializzazione ai ruoli di genere riveste nell’educazione di bambini e bambine (per cui il diverso grado di “aggressività, spavalderia, sicurezza di sé” non è strutturale, ma dipende dai modelli di comportamento a cui le bambine sono esposte sin dall’infanzia).
Al di là delle inevitabili ripercussioni sul piano nazionale, insomma, queste elezioni amministrative hanno fatto emergere due questioni particolarmente complesse e spinose, che andrebbero affrontate conferendo loro la rilevanza che meritano.