Del: 29 Novembre 2021 Di: Marco Fradegrada Commenti: 0

La voce dal suono metallico delle vecchie trasmissioni radio scorre uno a uno i paesi dell’Assemblea quasi fosse un appello. 33 “Sì” vengono pronunciati, 13 “No” e 10 sono i paesi astenuti. I membri della Commissione si alzano dalle poltrone e scoppiano in un rumoroso applauso. È fatta dunque. È il 29 novembre 1947 e il popolo palestinese vede l’ombra della nakba, la “catastrofe”, palesarsi nella propria vita, sotto forma di un nuovo piano di spartizione del territorio arabo imposto dall’Assemblea delle Nazioni Unite.

Palestina e paesi arabi solidarizzano contro quello che di fatto è interpretabile con le parole di Maxime Rodinson, come un “fenomeno coloniale”, che ancora oggi non ha raggiunto una vera fine. Sono fresche le immagini dei bombardamenti dello scorso maggio; sono ancora in atto decisioni su sgomberi delle famiglie palestinesi, come quelle di Sheikh Jarah, su decisione di una Corte Suprema che non le rappresenta, che è quella di Israele.

Tra il ‘48 e il ‘49 c’è una vera e propria guerra tra un’organizzata neo-nazione, che gode oltre che del sostegno europeo e statunitense, dell’insolito aiuto del colosso sovietico (ingolosito dall’allontanamento britannico) e un popolo rallentato dalla scarsa organizzazione bellica, incapace di corteggiare l’opinione pubblica occidentale e lacerato dai patti di suddivisone territoriale segreti che coinvolgono gli stessi eserciti arabi, come la Legione araba dell’emiro Abdallah di Giordania che in un colloquio con Ben Gurion, neopresidente del Consiglio nazionale israeliano, si spartisce de facto il territorio palestinese. Come scrive con una nota di amaro in bocca Alain Gresh: «La disfatta araba era dunque scritta nei rapporti di forze».

Facciamo un passo indietro. È il 14 maggio e Gurion si accinge a proclamare la nascita dello Stato di Israele. Mano sinistra salda alla base del foglio, capelli bianchi, sguardo corrucciato che transita dalle parole da leggere alla platea di ascoltatori; il ritratto di Theodor Herzl sulla parete di sfondo, al centro, tra due stelle di Davide che sembrano quasi proteggerlo. Non è un caso che il volto di Herzl si trovi alle spalle del neopresidente. Fu il giornalista che in giovane età riguardo alla riunione di Basilea, il 29 agosto 1897, scrisse di aver «fondato lo stato ebraico […] entro cinquant’anni se ne renderanno conto tutti». Uno tra i padri fondatori del sionismo, sostenitore del «processo di espropriazione e di trasferimento» del popolo palestinese. Scrisse in una lettera a Cecil Rhodes «Il mio programma è un programma coloniale».

Bisogna chiedersi se sia giusto dipingere la nascita di Israele come un concreto “fenomeno coloniale”.

Rimane però poco spazio interpretativo, soprattutto alla luce degli archivi oggi disponibili che non nascondono le azioni intraprese da Israele. Gurion prese il testimone degli intenti di Herzl, lo prese con vigore e tenacia. Tra le sue affermazioni nel corso del tempo non è difficile trovare riferimenti alla guerra e all’espropriazione territoriale come mezzi legittimi per il suo popolo. Non è difficile incontrare l’insoddisfazione per l’originario piano di spartizione di quel 29 novembre 1947. Yitzahk Rabin nelle sue Memorie, riferendosi alla conquista di Lydda e Ramleh, scrive:

Ci dirigemmo fuori al fianco di Ben Gurion. Allon ripeté la domanda: “Che cosa dobbiamo fare della popolazione?” Gurion agitò la mano con un gesto che significava “Cacciateli” […] Non c’era altro modo che utilizzare la forza e i tiri di avvertimento per costringere gli abitanti.

In quei due anni di guerra, per mano dei gruppi sionisti e dell’esercito ufficiale di Israele, i palestinesi furono vittime di una vera e propria pulizia etnica. Il massacro di Deir Yassin, per mano dell’Irgun e del Lehi, sostenuti dalla Haganah e i molteplici altri episodi ne sono la prova. I rapporti a riguardo dei dirigenti israeliani non lasciano dubbi. Joseph Nachmani scrive: «Entrarono nel villaggio di Safsas, i cui abitanti avevano alzato bandiera bianca. Separarono le donne dagli uomini, legarono le mani di 50-60 contadini e li uccisero, li seppellirono in una fossa comune. Violentarono anche molte donne».

Bisogna per forza ora pensare però a un precedente storico non trascurabile. Stiamo parlando della sorte toccata a milioni di ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. Ora, a riguardo Alain Gresh, con il sostegno delle parole di Edward Said coglie il punto. Senza voler minimizzare la tragica storia del popolo ebraico negli anni dell’Olocausto, è innegabile che si giunse a una rottura con il rispetto storico dell’accaduto, approdando a un suo uso a difesa del progetto israeliano (almeno tra le frange più estreme di Israele, anche se non solo).

L’uomo ha marcato la storia più e più volte, talvolta con gesti dai quali non si libererà mai. Mettersi oggi come allora a favore o contro Israele ha preso la funzione di distinzione tra nuovi “antisemiti” e non. La nazione ebraica rifiuta qualunque rimprovero riguardante i diritti umani. Ai suoi occhi la Palestina dovrebbe prendere vera coscienza dell’Olocausto e lasciare a Israele la propria terra. Ma il discrimine sta proprio qui. Prendere coscienza vera della Shoah, comprenderla in quanto fenomeno storico, legittima le proteste e le difese del popolo palestinese.

Nel 1970 Oriana Fallaci passa una notte documentata sui suoi diari personali sul fronte arabo tra i Fedayyin di Al-Fatah, l’organizzazione militante che prenderà le redini dell’Organizzazione di Liberazione per la Palestina. Uno di loro, tra i più giovani, la avvicina durante una breve intervista con un altro soldato. Prende parola: «Tu dici che vuoi bene agli ebrei. Ma allora tu vuoi bene a noi. Perché gli israeliani non sono più gli ebrei. Gli ebrei, oggi, siamo noi».

Marco Fradegrada
Studio filosofia, mi affascina la psicologia, impazzisco per gli aneddoti nelle biografie. Mi interessano le vicende dell'Est europeo, Oriente e Medio Oriente. Ascolto tanta musica, suono e vado matto per i cani.

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