L’affossamento del disegno di legge Zan al Senato è stato accompagnato dall’esultanza scomposta ed esagerata dei senatori del centro-destra, felici di aver bloccato il tentativo del centro-sinistra di approvare la legge. Il fatto che siano mancati alcuni voti tra i senatori della sinistra e l’esultanza scatenata che si è verificata subito dopo il voto hanno suscitato una tale indignazione da contribuire ad alimentare le proteste di piazza che si sono verificate nei giorni successivi.
Nonostante il clima di unità nazionale che circonda il governo di larga maggioranza al momento in carica, sono così tornati a farsi vivi i famigerati franchi tiratori, i parlamentari che disattendono le indicazioni di voto fornite dal proprio partito e nel segreto dell’urna votano in modo differente. Il tempismo, però, non è casuale: tra circa due mesi il Parlamento in seduta comune e i delegati regionali dovranno riunirsi per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. L’elezione per il Quirinale è in un certo senso la sublimazione della filosofia dei franchi tiratori: il voto è talmente segreto che vengono allestite al centro dell’emiciclo alcune cabine elettorali (i cosiddetti catafalchi), dove i grandi elettori si recano con la propria scheda per scrivere in tutta solitudine il nome del candidato prescelto. La pretesa segretezza è parzialmente illusoria: se l’indicazione è di votare scheda bianca sarà sufficiente cronometrare il tragitto del parlamentare che transita sotto il catafalco per capire se ha tirato dritto rispettando la consegna oppure se si è soffermato a scrivere sulla scheda.
Ciò che conta però è la funzione dei franchi tiratori. Al di là dell’indignazione per la bocciatura di una proposta di legge che si riteneva più o meno meritevole, e anche al di là delle polemiche sulla supposta necessità di abolire, una volta per tutte, il voto segreto, non si possono ignorare i risvolti salvifici che le votazioni segrete e le macchinazioni sotterranee hanno avuto e possono ancora avere.
Il singolo parlamentare di solito può poco nei confronti del gruppo parlamentare di appartenenza. Una volta eletto – con modalità talvolta discutibili, tra liste bloccate, ripescaggi e altre storture – è tenuto a iscriversi a un gruppo; in difetto, finisce automaticamente nel gruppo misto. I gruppi parlamentari cercano di muoversi in modo monolitico e inevitabilmente assorbono i dissensi e i disaccordi che nascono al loro interno, convogliando i propri componenti verso una linea unica, spesso forzata dalla necessità di confermare o negare la fiducia al governo in carica. I voti palesi sigillano questa dinamica: votare contro il proprio gruppo può significare l’isolamento, persino l’espulsione.
I voti segreti, invece, consentono ai parlamentari di votare veramente secondo coscienza; ciò nella maggior parte dei casi non vuol dire che deputati e senatori sono mossi da alti ideali o da valori cristallini, ma che semplicemente danno fondo alle proprie convinzioni e votano di conseguenza. Se il Parlamento ha la funzione di bilanciare il potere strabordante del governo, allora la funzione dei franchi tiratori diviene essenziale, decisiva. Solo nel segreto dell’urna il Parlamento può sfuggire ai condizionamenti e ai ricatti che il governo prova spesso a imporgli. Paradossalmente, il parlamentare dissenziente esercita il suo mandato fino in fondo, rimettendo la propria decisione solo alle sue convinzioni, nobili o infime che siano. Porta la sua funzione di deputato o senatore alle estreme conseguenze.
La reputazione del franco tiratore è però certamente negativa.
Come tutte le figure che si muovono nell’ombra – qui addirittura nell’ombra delle istituzioni parlamentari, e il sospetto è massimo – è diventato con il tempo il responsabile di ogni nefandezza, fungendo così da sfogo del sistema politico, con la medesima funzione esercitata in cucina dalla nota valvola del bollitore o della pentola a pressione. Senza il franco tiratore da vituperare, incolpare, denigrare, il bollitore del sistema politico potrebbe saltare in aria o, peggio, incartarsi, impaludarsi nell’inconcludenza del ricatto e del veto incrociato. Nel segreto può accadere davvero ciò che nel palese non potrebbe mai verificarsi.
L’aneddotica è abbondante, soprattutto con riferimento al voto per il Quirinale. Nella prima repubblica i movimenti nell’ombra dei franchi tiratori hanno impedito ai leader della Democrazia cristiana – da Fanfani ad Andreotti, da Moro a Forlani – di essere eletti al vertice delle istituzioni. Nel 1971 su una scheda apparve una simpatica poesiola contro la candidatura di Fanfani: «Nano maledetto / non sarai mai eletto». E quando effettivamente Fanfani venne affondato (ci vollero 24 votazioni per arrivare all’elezione di Leone), la stessa mano vergò i versi finali del componimento sulla scheda dell’ultima votazione: «Nano maledetto / te lo avevo detto / che non venivi eletto». Nel 2013 centouno franchi tiratori del centro-sinistra negarono il proprio voto al fondatore del Pd Romano Prodi, affossando la sua candidatura. E al di fuori delle vicende presidenziali, nel 1993, nel pieno di Tangentopoli, la Camera negò a scrutinio segreto quattro autorizzazioni a procedere nei confronti del segretario socialista Bettino Craxi, provocando un memorabile pandemonio nell’emiciclo.
Gli equilibri parlamentari – dal ddl Zan all’elezione per il Quirinale – si giocano sul filo sottile di accordi, lealtà, ambizioni, avversioni, vendette. Per i leader che provano a raggiungere i propri obiettivi, il compimento di un’operazione che deve passare attraverso il voto segreto si rivela spesso un’impresa ardua, faticosa, deludente. È come se la bilancia degli equilibri politici si riassestasse, portando in equilibrio la forza mediatica e decisionista dei leader di partito con gli umori sotterranei e incontrollabili dei parlamentari. Anche per questo non si può avere paura dei franchi tiratori.
Il caos parlamentare indotto dalle votazioni segrete rafforza l’autonomia del Parlamento, rivitalizza il rapporto tra i partiti e gli elettori, ponendo in dubbio le certezze già acquisite. In fondo, è l’anima che prevale sulla ragione.
Se un partito non riesce a portare a compimento un impegno parlamentare che si era prefissato – come nel caso del ddl Zan – farebbe bene a guardarsi al suo interno. Le ragioni della contrapposizione tra fazioni (il passo verso le estremizzazioni religiose, persino teologiche, è breve) si devono compensare con le esigenze del parlamentarismo. Se sei in minoranza, suggerisce Luca Sofri, devi trovare un compromesso; se vuoi tutto, devi convincere gli elettori e ottenere la maggioranza. Se poi ti sbricioli al momento del voto, perché hai scelto una strategia inconcludente di mezze misure che non soddisfa e impaurisce i tuoi stessi parlamentari, stai semplicemente facendo i conti con l’anima del Parlamento; un’anima che qualche volta riemerge, inaspettata, anche con il volto beffardo dei senatori del centro-destra felici di avere affossato il ddl Zan.