EliSIR è la rubrica di geopolitica e relazioni internazionali curata su Vulcano da SIR – Students for International Relations, associazione studentesca della Statale.
Nelle ultime settimane l’Europa è stata testimone di immagini strazianti che dipingono migranti ammassati al confine tra Polonia e Bielorussia, in condizioni precarie e colpiti dal freddo, costantemente respinti dalle forze armate polacche e da quelle bielorusse in un ping pong disumano. Una crisi architettata dal presidente bielorusso Aljaksandr Lukašėnka e strumentalizzata da entrambe le parti, significativa di un confronto geopolitico che va ben al di là della questione migratoria e umanitaria.
Dalla fine di agosto gruppi sempre più numerosi di profughi sono giunti in Bielorussia dal Medio Oriente, incoraggiati dalle stesse autorità governative. Il governo di Minsk ha infatti alleggerito le procedure burocratiche per ottenere i visti in ingresso e diverse compagnie aeree presenti in Medio Oriente – tra cui Belavia, la compagnia aerea statale bielorussa – hanno approfittato della situazione e stabilito collegamenti diretti tra Minsk e le principali capitali mediorientali. La maggior parte delle persone che intraprendono questo viaggio provengono dal Kurdistan iracheno e siriano e hanno come destinazione finale la Germania, ma non rinunciano ad arrivare fino al confine con l’Unione Europea in aereo, evitando una tratta sin lì piuttosto ostica e lunga. Ignari del fatto che, una volta arrivati in Bielorussia, i pochi chilometri che li separano da Polonia, Lituania ed Estonia rappresentano un’impresa molto più difficile.
Lo scorso 8 novembre il flusso migratorio ha preso tutt’altra piega, quando migliaia di migranti – le autorità polacche stimano un totale di 30’000 persone – sono stati scortati dalle forze armate bielorusse verso il territorio polacco e incoraggiati a varcare il confine, rimanendo tuttavia bloccati. Polonia e Lituania hanno dichiarato lo stato di emergenza e, soprattutto da parte polacca, i confini sono stati fortemente militarizzati e sorvegliati dalle autorità in maniera massiccia e intensiva. La Polonia ha stanziato oltre 12’000 soldati al confine e il Ministro dell’interno polacco Mariusz Kaminski ha annunciato che a dicembre inizieranno i lavori per la costruzione del muro al confine con la Bielorussia, già approvato dal parlamento di Varsavia due settimane fa per 350 milioni di €. Il muro sarà alto 5,5 metri e lungo 180 km e sarà ultimato a marzo 2022.
Negli ultimi giorni la questione si è notevolmente ridimensionata, con le forze armate bielorusse che hanno allontanato dal confine migliaia di profughi, di cui molti saranno rimpatriati, mentre altri arriveranno in Germania, loro meta originaria.
Tuttavia, questo episodio ha messo in luce una serie di dinamiche pregresse, di cui la questione migratoria è solamente l’aspetto più evidente. Innanzitutto, le tensioni al confine sono strumentali sia a Minsk che a Mosca, le quali ribadiscono la loro alleanza, mettono pressione a Polonia e Baltici – addirittura facendosi costruire un muro a spese loro – e ne mostrano la fragilità. È probabile che Lukašėnka abbia forzato un po’ la mano di Putin. Addirittura, nel bel mezzo della crisi, il leader bielorusso ha minacciato di tagliare le forniture di gas all’Europa, salvo poi essere ripreso dallo stesso Putin. Ma ciò non esclude che ci sia stata un’intesa tra i due.
La Bielorussia quindi si riconferma stabilmente nella sfera di influenza russa. L’ultimo Paese europeo formalmente alleato del Cremlino, uno stato-cuscinetto che divide la Russia dall’Unione Europea e dalla NATO, ossia la sfera di influenza americana. L’alleanza tra i due trova conferma anche nei progetti di unione statale approvati dai parlamenti di Russia e Bielorussia proprio qualche giorno prima dello scoppio dei disordini al confine. Una volta centrati gli obiettivi, Putin e Lukašėnka hanno fatto rientrare la crisi. I profughi sono stai evacuati; a qualcuno è stato concesso di arrivare in Germania, gli altri sono stati rimpatriati. Per non attirare eccessivamente l’attenzione di Washington o ulteriori sanzioni europee.
Dall’altra parte, la Polonia ha volutamente esagerato la portata di quella che definisce crisi. Rispetto all’ondata migratoria che fece seguito alla guerra siriana, per esempio, i numeri sono imparagonabili. Nel solo 2015, oltre un milione di profughi approdò in Europa attraverso la Turchia, la quale oltretutto ricevette miliardi di euro dall’Unione Europea per fermare l’esodo.
Il governo Moraviecki ha addirittura dichiarato lo stato d’emergenza, cosa che non era successa neanche durante la prima ondata della pandemia. In questo modo, oltre a rafforzare il proprio potere, chiede all’UE di mostrarsi compatta dalla sua parte, probabilmente per ricordare a Bruxelles che senza Polonia i russi sarebbero liberi di scorrazzare per il continente. E anche che i soldi del Recovery Fund non possono essere subordinati a questioni ritenute marginali da Varsavia, come quella sullo stato di diritto. Lo stesso messaggio vale per gli americani, i quali hanno delegato il contenimento di Mosca proprio agli europei centro-orientali, per concentrarsi sul contenimento marittimo della Cina.
E se Mosca viene dipinta da Varsavia come una minaccia concreta, non fa niente per smentire la posizione polacca; anzi, nel bel mezzo della crisi ha tenuto delle esercitazioni militari in Bielorussia, proprio al confine con la Polonia.
L’Unione Europea si è mostrata subito a fianco dei polacchi, con parole anche piuttosto dure. Le più alte cariche dell’Unione, dalla Presidente della Commissione Von der Leyen al Presidente del Consiglio Europeo Michel, hanno definito la tattica bielorussa un “attacco ibrido” a cui bisogna rispondere duramente, di fatto legittimando la posizione polacca. E Michel ha addirittura acconsentito all’idea polacca di costruire un muro. Ma la retorica lascia spesso il tempo che trova. L’agenzia Frontex, preposta alla difesa dei confini dell’UE, non è stata inviata al confine poiché, dovendo rispettare la legge comunitaria sul diritto di asilo, avrebbe lasciato entrare i profughi diretti in Germania. Dovendo trovare la quadra tra difesa dei diritti umani, dei propri confini e dello stato di diritto, l’UE viola le proprie stesse regole.
In risposta alle azioni di Minsk, l’Unione sta valutando nuove sanzioni anche se rimangono forti opposizioni, tra cui quelle di Mario Draghi. Bisognerebbe inoltre chiedersi se la continua imposizione di sanzioni sia una tattica efficace. Il governo della Bielorussia, così come quelli di tanti altri stati al mondo colpiti dalle sanzioni “occidentali” (spesso da parte degli USA), ha dalla sua parte la retorica: le sanzioni – oltre ad affamare le popolazioni locali – vengono usate come pretesto per mantenere il potere e scaricare su chi le impone la responsabilità del proprio fallimento.
La confusione dell’Unione Europea riflette la sua eterogeneità interna: gli stati membri hanno visioni differenti in merito alla questione migratoria, alla difesa dello stato di diritto, alla Russia. Se non addirittura contrapposte. La posizione della Germania è emblematica di queste contraddizioni. In un colloquio telefonico, Angela Merkel ha chiesto a Vladimir Putin di fare qualcosa per frenare la strumentalizzazione dei migranti da parte bielorussa, definendola “inumana e inaccettabile”, anche se Putin smentisce ogni legame con il fatto. Qualche giorno dopo, l’Agenzia federale per le reti ha sospeso la certificazione del gasdotto Nord Stream 2 per un cavillo tecnico: la società che gestisce il gasdotto, Nord Stream 2 AG, ha sede legale in Svizzera e non in Germania. La tempistica non è casuale. Berlino utilizza l’arma dell’interdipendenza energetica per fare pressione sulla Russia e per accontentare gli europei più russofobi – polacchi e inglesi – ma anche i francesi. Questa non può che essere una misura temporanea, poiché la convergenza con Mosca, soprattutto per quanto riguarda le forniture di gas, è fondamentale per Berlino.
Strattonata tra la retorica dei diritti umani, la guida dell’UE, il mantenimento della sfera di influenza (economica) sull’Europa centrale e la convergenza necessaria con Mosca, la Germania cerca di accontentare tutti, senza accontentare nessuno. Prima di tutti sé stessa. Staremo a vedere se l’equilibrismo in cui è stata maestra la Merkel reggerà anche con il prossimo esecutivo.
Le altre nazioni europee ne approfittano per tirare l’acqua al proprio mulino. Primi su tutti gli inglesi. Il Regno Unito infatti ha inviato un piccolo contingente di 10 militari al confine polacco e il premier Boris Johnson ha rilasciato delle dichiarazioni piuttosto aggressive: oltre a condannare la azioni bielorusse e ribadire la solidarietà nei confronti della Polonia, ha accusato la Russia per la questione dell’Ucraina, aggiungendo che gli europei devono scegliere tra «trasportare sempre più idrocarburi russi in nuovi gasdotti giganti e difendere pace e stabilità». Un chiaro riferimento al Nord Stream e alla Germania, per cui Londra prova una profonda insofferenza, ma anche un modo per mostrarsi fedeli agli Stati Uniti. I quali non è detto che gradiscano posizioni così forti, che rischiano di attirare le ire di Putin.
In conclusione, i disordini al confine tra Polonia e Bielorussia, più che essere rilevanti di per sé, mettono in luce le profonde spaccature che dividono il continente europeo.
Non solo la “nuova cortina di ferro” che divide ciò che rimane dell’impero sovietico dall’Europa centro-occidentale filo-americana; ma anche le divisioni tra i membri stessi dell’Unione Europea. Per quanto l’UE provi a mostrarsi compatta, in situazioni del genere vengono a galla gli interessi nazionali dei singoli stati. Una politica estera comune appare ancora lontana.
Articolo di Andrea Stucchi.