Del: 10 Dicembre 2021 Di: Alessandra Pogliani Commenti: 0
“Africathletics”, un progetto per il Malawi del futuro

«E voi, quante scarpe acquistate in un anno?». Una domanda secca fa da didascalia a uno dei tanti post della pagina Instagram di Africathletics: il ritratto di un bambino malawiano, seduto con le gambe a penzoloni su un banco di scuola e un paio di Mizuno nuove ai piedi.

Una scarpa da running, in media, regge 600-800 chilometri. Il che, tradotto in termini di durata della suola, significa parecchie settimane di ammortizzazione garantita per chi va a correre ogni tanto, e tre mesi stiracchiati per i podisti inclini al fanatismo. Per quanto poi il mercato ci faccia credere che completini fluo e cappelli con torcia per arrancare la sera nella zolla sotto casa siano un kit indispensabile, in verità qualsiasi atleta o “tapascione” che non voglia essere inseguito dal demone della fascite plantare deve solo attenersi a due semplici, inderogabili imperativi dell’attrezzatura da jogging: comprare un paio di calzature adatte e cambiarle spesso – pena le torture del fisioterapista. E sostituire le scarpe, che lo si faccia una o quattro volte l’anno, costa.

Lo sanno bene i bambini di Monkey Bay, protagonisti del progetto di Africathletics: per paura di rovinare le suole ogni tanto fanno un allungo a piedi nudi. In un paese come il Malawi, in cui la maggior parte della gente vive con meno di un dollaro e mezzo al giorno, un paio di scarpe da corsa è un tesoro da consumare cento metri alla volta, riservandolo per le gare importanti.

Africathletics nasce nel 2015 da un’idea di Mario Pavan e Enrico Tirel, con lo scopo di garantire borse di studio e un futuro migliore ai ragazzini di una cittadina affacciata sul lago Malawi, nell’Africa sud-orientale: “crescere liberi, studiare e praticare uno sport” è il motto dell’iniziativa.

Come si legge sul sito della onlus, in Malawi la scuola primaria non è accessibile a tutti, e spesso i maestri si ritrovano a gestire da soli classi sovraffollate. Insegnare a duecento bambini per aula la lingua inglese, requisito necessario per potersi iscrivere alla scuola secondaria, è molto difficile, e alla fine nemmeno il 10% dei piccoli iscritti prosegue gli studi.

Il programma di Africathletics intreccia all’aspetto educativo, gestito con doposcuola, corsi di formazione per docenti e lezioni di inglese e matematica, altri due obiettivi: diffondere i valori dello sport e, tra una corsa e l’altra, educare a un’alimentazione equilibrata e consapevole. Corollario per niente scontato. La dieta malawiana, infatti, tende a sbilanciarsi verso i carboidrati (si mangia soprattutto una sorta di polenta bianca chiamata nsima), a scapito di un completo ma ben più costoso apporto proteico e vitaminico. Così al Mufasa Eco Logde, base operativa del progetto, ai ragazzi si forniscono anche carne, pesce, ortaggi e bevande a base di polvere di baobab, fondamentali per il reintegro dei sali dopo lo sforzo fisico.

Qualche ora di lezione e gli insegnanti diventano allenatori: una volta distribuiti scarpe e abbigliamento tecnico, raccolti dai collaboratori in Italia, si va tutti a macinare miglia in mezzo alle linee di gesso della pista di atletica, tracciate un po’ storte sulla terra battuta e ripassate a ogni scroscio di pioggia. Ai coach e ai maestri si affiancano, nella gestione delle attività del campus, i volontari: per chi desiderasse contribuire alla raccolta fondi o candidarsi e prendere parte a questo microcosmo fatto di caldo torrido e speranza, basta consultare la sezione apposita del sito.

Nei paesi in via di sviluppo, afflitti da una transizione demografica non ancora completata e da un’economia che non regge la pressione dei tassi di natalità, il fatto che l’istruzione sia un nodo cruciale non è certo nuovo. Piuttosto, perché l’atletica leggera? Anche in questo caso, il portale del progetto parla chiaro: uno sport è un manuale di vita, uno di quei libretti di istruzioni per l’uso con poche regole a cui appigliarsi sempre.

Abituati come siamo a confinare il running nell’area dei passatempi di massa per espiare peccati di gola, spesso trascuriamo la parte dell’atletica che è l’agonismo, con la sua quotidianità fatta di ripetute sfiancanti, rinunce, soddisfazioni, sgobbate a volte non paghe.

Fare atletica a livello agonistico è uno sforzo individuale che insegna la solidarietà di una lotta continua con se stessi. Si impara a conoscersi nei propri limiti, a confrontarsi cogli altri senza essere invidiosi, a lavorare su di sé con disciplina, ricordando che siamo fallibili, umani, e che una prestazione scarsa non ci definisce ma può darci la spinta per migliorare – dopotutto, per dirla con Usain Bolt, «good enough has never changed the world».

In una società che sta perdendo i suoi riti di passaggio, la pratica di uno sport è un percorso di formazione in cui avremmo bisogno di investire ancora.

Cosa che invece, qui in Italia, non si fa abbastanza: l’attività agonistica adolescenziale è ancora appannaggio di rare creature mitologiche, centauri mezzi studiosi e mezzi campioni, protetti più dalla fortuita comprensione di qualche insegnante che non da un sistema strutturato. Spronati troppo spesso dall’ambizione dei genitori o da risultati prematuri, non tanto dalla bellezza dello sport in sé. Troppi ragazzi sono costretti a un bivio prima del tempo, come se studiare e preparare un campionato nazionale fossero due alternative inconciliabili; e così l’agonismo non è più un diritto di tutti, ma una corsia riservata a chi ha talento a sufficienza per sognare le Olimpiadi – altrimenti non ne vale la pena.

Dall’altra parte, la narrazione sui percorsi scolastici continua a essere improntata alla celebrazione degli studenti precoci, primi arrivati che vantano un liceo liquidato in quattro anni e forse, dal 2022, anche due lauree in contemporanea, se potranno permettersene i costi. La nostra istruzione e il riflesso che ne vediamo allo specchio dei media sono tutt’altro che un sistema paritario di opportunità, mirante a una formazione solida e alla salvaguardia della meritocrazia.

Dai valori dello sport, poi, siamo parecchio lontani: l’agonismo è una faccenda da tempi lunghi, meta a cui si arriva con pazienza, da grandi, imparando anche a perdere. D’altronde, basta mettere piede sul tartan per capire che le classifiche sono numeri superflui, e l’aria che si respira nei campi di atletica ha piuttosto qualcosa di familiare, collettivo, accogliente. Ci si sente come allacciati per le stringhe dal primo all’ultimo, in una fatica condivisa, compagni di squadra prima che avversari: a correre tutti insieme, incespicando di continuo, quella difficilissima maratona a occhi chiusi che è crescere.

Alessandra Pogliani
Ostile al disordine e col cruccio di venire a capo dell’anarchia del mondo, per contrappasso nella vita studio storia.

Commenta