Del: 21 Dicembre 2021 Di: Giulia Ariti Commenti: 0
Radici. Tutte le picconate di Francesco Cossiga

Radici racconta fatti, personaggi e umori della storia della Prima Repubblica italiana, dal 1946 al 1994. A questo link è possibile trovare gli articoli precedenti della rubrica. 


La figura di Francesco Cossiga è stata, negli anni, a più riprese rivalutata: indecifrabile e dall’atteggiamento spesso ambiguo, l’ottavo Presidente della Repubblica viene ricordato soprattutto per gli ultimi anni di presidenza come il “picconatore”. Il “picconato” è il sistema partitico della Prima Repubblica, ormai considerato vecchio e troppo legato alle super potenze della guerra fredda che, proprio in quegli anni, era in fase conclusiva.

La carriera di Francesco Cossiga fu quella di un enfant prodige: nato il 26 luglio 1928 da una famiglia antifascista originaria di Sassari, si diplomò con tre anni di anticipo al Liceo classico Domenico Alberto Azuni di Sassari e a 19 anni e mezzo era un giovanissimo laureato in Giurisprudenza. La sua attività politica iniziò a 17 anni, con l’iscrizione a Democrazia Cristiana.

L’elezione in Parlamento arrivò nel maggio 1958, quando iniziò a sedere negli scranni della divisione di Sassari, Cagliari e Nuoro di Democrazia Cristiana. Otto anni dopo, nel 1966, il primo incarico di Governo come Sottosegretario alla Difesa durante il terzo Governo Moro, con delega specifica alla sovraintendenza sull’organizzazione paramilitare Gladio. Divenne Ministro dell’Interno durante il quinto governo Moro, il 12 febbraio 1976, fino al 30 luglio dello stesso anno; proseguì l’incarico nel terzo governo Andreotti.

Furono proprio i suoi anni da Ministro dell’Interno a portare il suo nome sulla bocca dell’opinione pubblica. La sua reazione alle proteste studentesche durante gli anni di piombo gli fece guadagnare la fama di “ministro di ferro”.

Reagì con durezza contro gli studenti di Bologna che manifestarono l’11 marzo 1977, mandando veicoli trasporto truppe blindati nella zona universitaria. Negli scontri con la polizia morì Francesco Lorusso, studente e militante di Lotta Comunista. Nei giorni a seguire, le proteste divennero sempre più accese e diffuse in tutto lo stivale: a Torino morì il brigadiere Giuseppe Ciotta; il 22 marzo Claudio Graziosi fu ucciso a Roma durante l’arresto della terrorista Maria Pia Vanale; il mese successivo morì un altro poliziotto che sorvegliava un corteo di manifestanti.

La durezza repressiva che dimostrò lo rese odiato tra i manifestanti. Nel maggio 1977 vietò le manifestazioni in tutto il Lazio, ma grandi gruppi militanti ignorarono il divieto e il 12 maggio, nei pressi di Ponte Garibaldi a Roma, durante una manifestazione radicale, un proiettile partì dalla zona in cui la polizia era schierata, colpendo a morte Giovanna Masi, studentessa iscritta al Partito Radicale. La responsabilità morale cadde sul Ministro dell’Interno che si trovò costretto ad ammettere la presenza di poliziotti in borghese, precisando che lui non ne fosse a conoscenza e, quindi, che avrebbe provveduto alla rimozione del questore di Roma.

«Scongiurai Marco Pannella – avrebbe raccontato Cossiga a La Repubblica – di disdire il comizio di Piazza Navona: egli non accolse il mio invito. Il reparto dei carabinieri che si trovava dall’altra parte del ponte, subito accusato di aver aperto il fuoco, per ordine dell’autorità giudiziaria fu disarmato da elementi della Squadra Mobile: alla perizia, risultò che nessun colpo era stato sparato. Da parte mia, rimossi dalla carica di questore di Roma un caro amico che però mi aveva falsamente informato non esservi in piazza poliziotti e carabinieri con le armi in mano, il che non era vero. Ma neanche dalle armi di costoro risultò fosse stato sparato il colpo mortale».

Il caso Masi rimase irrisolto e qualcosa, nei decenni a venire, mutò negli atteggiamenti del ministro, che dimostrò una logica garantista, autocritica e numerosi ripensamenti. Molto scandalo fece, nel 2008, la sua posizione nei confronti dei movimenti studenteschi emergenti. In un’intervista, consigliò all’allora Ministro dell’Interno, Roberto Maroni, la stessa strategia da lui utilizzata negli anni Settanta: «Che al minimo cenno di violenze di questo tipo, le forze di polizia si ritirino, l’ideale sarebbe che di queste manifestazioni fosse vittima un passante, meglio un vecchio, una donna o un bambino, rimanendo ferito da qualche colpo di arma da fuoco sparato dai dimostranti: basterebbe una ferita lieve, ma meglio sarebbe se fosse grave, ma senza pericolo per la vita».

«Un’efficace politica dell’ordine pubblico deve basarsi su un vasto consenso popolare, e il consenso si forma sulla paura, non verso le forze di polizia, ma verso i manifestanti».

Le dimissioni da Ministro dell’Interno arrivarono nel 1978, in seguito al ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, dopo 55 giorni di prigionia. Quando nel marzo fu reso palese il rapimento dell’esponente di Democrazia Cristiana ad opera delle Brigate Rosse, Cossiga creò rapidamente due comitati d’emergenza: uno ufficiale e uno ristretto per la soluzione della crisi. All’interno della commissione ristretta prese parte anche Steve Pieczenick, un esperto di terrorismo americano alle dipendenze dell’amministrazione Carter.

A partire dal 1994, lo stesso Pieczenick rilasciò dichiarazioni che miravano ad accusare Cossiga di aver già rinunciato alla vita di Aldo Moro. La maggioranza di Governo composta da PCI-DC aveva intrapreso e mantenuto la “linea della fermezza” e il rifiuto della trattativa con le Brigate Rosse; solo i socialisti e i radicali di Marco Pannella apparivano disposti ad aprirsi alle trattative. Inoltre, diversi esponenti della loggia massonica P2 si erano infiltrati all’interno dei vertici governativi.

«Dopo un po’ mi resi conto che quanto avveniva nella sala riunioni filtrava all’esterno – avrebbe dichiarato Pieczenick in un’intervista, poi uscita su Panorama il 13 agosto 1994 –. Lo sapevo perché ci fu chi, persino le Br, rilasciava dichiarazioni che potevano avere origine soltanto dall’interno del nostro gruppo. C’era una falla, e di entità gravissima. Un giorno lo dissi a Cossiga, senza mezzi termini. “C’è un’infiltrazione dall’alto, da molto in alto”. “Sì” rispose lui “lo so. Da molto in alto”. Ma da quanto in alto non lo sapeva, o forse non lo voleva dire. Così decisi di restringere il numero dei partecipanti alle riunioni, ma la falla continuava ad allargarsi, tanto che alla fine ci ritrovammo solo in due. Cossiga e io, ma la falla non accennò a richiudersi.»

Tuttavia, il rimpianto di non aver salvato Aldo Moro, amico e mentore politico per Cossiga, lo accompagnò per tutta la vita. «Quando, con il Pci di Berlinguer – rivelò in una intervista al Corriere della Sera nel 2008 – ho optato per la linea della fermezza, ero certo e consapevole che, salvo un miracolo, avevamo condannato Moro a morte. Altri si sono scoperti trattativisti in seguito; la famiglia Moro, poi, se l’è presa solo con me, mai con i comunisti. Il punto è che, a differenza di molti cattolici sociali, convinti che lo Stato sia una sovrastruttura della società civile, io ero e resto convinto che lo Stato sia un valore. Per Moro non era così: la dignità dello Stato, come ha scritto, non valeva l’interesse del suo nipotino Luca».

L’11 maggio 1978, Cossiga diede le dimissioni come Ministro dell’Interno. «Fin da quando, nell’edicola di Monte Mario dove stavo sfogliando riviste di elettronica, appresi dalla radio dell’auto di scorta collegata con il capo della polizia che Moro era stato rapito, fui certo che sarebbe stato ucciso – rivelò anni dopo – perché scegliendo la linea della fermezza, noi stabilivamo la sua condanna a morte. Così scrissi subito due lettere di dimissioni: una nel caso le Br l’avessero ucciso, l’altra nel caso, che mi pareva remoto, l’avessero liberato».

«Per giorni, per mesi – continuò – dopo via Caetani e le mie dimissioni, mi sono svegliato di soprassalto, dicendo: “Io ho ucciso Aldo Moro”. E ne ero consapevole, sin dall’inizio».

Non fu, tuttavia, la fine della scalata politica di Francesco Cossiga. Nel 1979, il presidente della Repubblica Sandro Pertini lo chiamò alla Presidenza del Consiglio, prima di prendere il posto del capo di Stato sei anni più tardi.

Divenne Presidente della Repubblica nel 1985, eletto con un solo scrutinio e una larga maggioranza di voti proveniente dallo schieramento delle sinistre (752 voti su 977). La sua presidenza fu di due periodi. Nei primi cinque anni fu inquadrato dalla satira come un “signor nessuno”: molto popolari le vignette che ritraevano il Palazzo del Quirinale vuoto. Mantenne un profilo basso, limitandosi a firmare le leggi e seguire le scelte delle Camere.

La svolta, però, avvenne negli ultimi due anni. Con la caduta del muro di Berlino, iniziò a parlare di un profondo cambiamento del sistema politico italiano avvenuto con la fine della guerra fredda. Lo scenario geopolitico stava cambiando e, secondo il Presidente, se l’Italia non avesse mantenuto un profilo alto, presto sarebbe stata al servizio del volere americano. Iniziò la fase delle “esternazioni”: in un crescendo di dichiarazioni e denunce, intensificatosi tra il 1991 ed il 1992, controllava l’attività legislativa del Parlamento e del Governo, denunciava ritardi e anomalie del sistema politico, con lo scopo di dare delle “picconate” a questo sistema; da qui l’appellativo di “picconatore”.

Con un discorso alla Nazione, il 25 aprile 1992, si dimise dal suo mandato, due mesi prima della scadenza naturale. La frequenza dei suoi interventi aveva provocato reazioni irritate da parte del Governo, con cui i rapporti si incrinarono sempre di più.

Nell’ottobre 1990, a due anni dalle nuove elezioni del Capo dello Stato, Giulio Andreotti rivelò l’esistenza di Gladio, l’organizzazione segreta paramilitare della NATO per contenere il comunismo. Una mossa politica per ostacolare Cossiga nella sua eventuale candidatura per un secondo mandato al Quirinale. Infatti, il capo dello Stato fece parte dell’organizzazione e rivendicò il suo ruolo all’interno di essa, assicurandone la legittimità. Fu in quegli anni, come avrebbe poi confessato nel 2007, soffrì di un aggravarsi di crisi depressive.

Come riportato nel podcast di Marco Damilano, Romanzo Quirinale, l’amicizia con Antonio Di Pietro potrebbe aver allarmato il Presidente. Non è da escludere che l’intento fosse anche quello di sottrarsi alla crescente inchiesta Mani Pulite che, proprio in quei giorni, iniziava a colpire la classe politica italiana.

«Lasciando il Quirinale – avrebbe dichiarato anni dopo, circa le proprie dimissioni da Presidente – a casa, ho acceso una candela. Poi è venuto il temporale, le loro candele si sono spente; la mia è rimasta accesa».

Giulia Ariti
Studentessa di Filosofia che insegue il sogno del giornalismo. Sempre con gli occhi sulla realtà di oggi e la mente verso il domani.

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