Del: 19 Dicembre 2021 Di: Beatrice Balbinot Commenti: 0
Tragedia del Vajont. In ricordo di Tina Merlin

Correva l’anno 1963. Nella ridente Longarone una bambina gioca nell’ombra proiettata da un grosso blocco di cemento che collega le due spalle delle montagne che cingono la città. Dietro a quella cinta riposa tranquilla l’acqua del bacino idroelettrico targato Sade. La diga di Longarone fu costruita tra il 1957 e il 1960, e fu salutata dalla popolazione come un’innovazione preziosa, in grado di portare lavoro in una valle di pastori e contadini. I lavori cominciarono sull’antico corso del torrente Vajont, le larghe spalle della diga crebbero in fretta sulle pendici delle montagne del Longaronese, il lago artificiale cominciò presto a innalzarsi con la sua acqua placida pronta a essere trasformata in energia.

Non ci volle molto però perché qualcosa cominciasse a scricchiolare nella roccia del monte Toc, sulle quali pendici si appoggiava la solida diga. Vengono operati alcuni sondaggi del terreno per saggiare la tenuta delle montagne su cui poggia la diga. I risultati sono preoccupanti: viene rilevata la presenza di una frana antichissima, estesa da quota 1200 metri fino a 650, proprio appena sopra il livello del bacino della diga. Il rischio che la roccia, insediata dall’acqua, torni a muoversi verso il basso, è concreto. Ma davanti alle denunce delle popolazioni e ai calcoli dei geologi, la Sade decide di non fare nulla.

Nel 1960 la prima frana spaventa i pastori di Erto e Casso, i piccoli paesi che sorgono ai lati della montagna. Grosse crepe cominciano a solcare i pascoli e i campi: la montagna si sta muovendo, l’acqua ha indebolito la roccia. Gli smottamenti sono sempre più frequenti, i borbottii del monte Toc cominciano a fare paura anche a Longarone, ma neanche questo è sufficiente a convincere la società Sade a chiudere la diga del Vajont.

La notte del 9 ottobre 1963 accade ciò che poteva essere previsto ma che non si è voluto vedere: una mole di roccia di 270 milioni di metri cubi si stacca dalla parete settentrionale del Toc e, raggiungendo la velocità impressionate di 90 km/h, impatta l’acqua del bacino artificiale. Il risultato è un’onda gigantesca che supera la diga e si abbatte senza pietà sugli abitati di Longarone, Erto e Casso.

“Scomparsa ogni traccia di vita a Longarone e nei paesi vicini” è il titolo che si legge sul Gazzettino, mentre su tutti i quotidiani si raccolgono le foto in bianco e nero della tragedia in cui persero la vita più di 2000 persone. Il dubbio che la catastrofe si potesse evitare comincia a diffondersi nell’opinione pubblica, nonostante gli interventi di alcuni illustri nomi della politica e della cultura, uno su tutti Dino Buzzatti che descrive l’accaduto con la famosa e ingiusta metafora di un sasso che cade dentro un bicchiere facendo schizzare sulla tovaglia l’acqua che conteneva. Il tentativo sembra quello di minimizzare l’evento a un concatenarsi di cause fisiche, di cui la natura è l’unica crudele fattrice. Ma la verità, e le colpe umane che essa contiene, è sempre destinata a venire a galla. Una verità che per tanti anni era stata silenziata, bistrattata, passata sotto insensati processi e denigrata.

Una donna ha il volto di quella verità, una donna di nome Clementina “Tina” Merlin.

Merlin nasce nel 1926 da una famiglia di contadini e muratori e cresce con i suoi 8 fratelli in una piccola casa a Trichiana, più precisamente a Marteniga, in provincia di Belluno. Merlin impara in fretta il mestiere difficile della vita, reso più complesso dall’essere una giovane donna. A soli 12 anni si trasferisce a Milano con la sorella Ida per lavorare come bambinaia. «Da piccola ho molto desiderato essere un maschio per essere maggiormente considerata dai miei genitori e dalla gente» scrive nella sua autobiografia La casa sulla Marteniga pubblicata postuma nel 1993. Dentro alla giovane di Trichiana si nasconde il fuoco potente dei sogni e dall’autoaffermazione, che non teme di essere spento dalle differenze di genere o dalle fatiche della sua adolescenza.

Quando Milano, nel 1943, viene presa di mira dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale Merlin sceglie di tornare a casa, nelle sue montagne. È qui che, ispirata e incoraggiata dal fratello Toni, si arruolerà nella Resistenza come staffetta partigiana, dando prova di grande coraggio e sacrificio. A spingerla è soprattutto la consapevolezza di poter fare qualcosa, proprio come gli uomini, per la sua gente e per la sua valle, quel meraviglioso «anfiteatro di colline e montagne» di cui molto parla anche nella sua biografia.

“Joe” è il suo nome di battaglia, la brigata 7° alpini diventa in fretta la sua nuova famiglia. Proprio durante il servizio partigiano incontra e si innamora di Aldo Sirena, che sposerà nel 1949 e da cui avrà un figlio. Il bambino porta il nome del fratello di lei, Toni, ucciso in un attacco poco prima della fine della guerra. Il periodo duro della guerra e dell’impegno partigiano plasma e ridefinisce un carattere già di per sé formato della stessa sostanza di quelle montagne rocciose che hanno visto nascere la piccola Tina, che l’hanno vista lavorare nei campi fin da bambina, che l’hanno vista partire, tornare e trasformarsi in una donna sicura e capace.

Merlin metterà la sua determinazione a servizio dell’attività giornalistica e letteraria: negli anni ’50 diventa invitata de L’Unità e nel 1957 pubblica un resoconto della sua esperienza partigiana con il titolo Menica. La relazione tra Merlin e L’Unità è un ritratto di molte storie di giornalismo, anche di oggi: scarsa considerazione, precariato, stipendio da fame non bastano a scoraggiare Merlin nella sua missione di portare la verità dei fatti nelle case degli italiani. Spinta da questa vocazione, non può fare finta di niente quando alla fine degli anni ’50 la frana del Toc nella valle del Vajont comincia a muoversi. A differenza di molti giornalisti dell’epoca che si accontentano di raccogliere il punto di vista della Sade, Merlin comincia una vera e propria indagine sul campo: intervista i pastori di Erto e Casso, osserva le pendici della montagna cambiare forma man mano che la terra si muove, studia i referti dei geologi.

A gran voce tenta di denunciare cosa sta accadendo poche centinaia di metri sopra Longarone, ma i poteri forti e la sua stessa testata silenziano le sue grida accusandola di diffamazione. Nel 1959 subisce un processo per diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico davanti al tribunale di Milano, dal quale viene assolta grazie anche agli abitanti di Casso ed Erto che vengono a testimoniare in favore della loro giornalista, dell’unica professionista che abbia raccolto le loro voci con l’intento di farne una verità oggettiva.

Quando nel 1963 il Toc frana nel lago artificiale e l’onda cancella Longarone dalla faccia della Terra la giornalista esprime profondo e doloroso rammarico: «Mi sentivo in colpa per non aver fatto di più per impedire il compimento della tragedia. Eppure avevo fatto del mio meglio». La ricostruzione di Merlin del disastro del Vajont è contenuta nelle preziose pagine di Sulla pelle viva, in cui la giornalista ricorda le fasi di un dramma disumano annunciato e lasciato accadere.

Da donna impegnata e determinata qual è, Merlin afferma la sua peculiare forza d’animo anche in politica, ricoprendo dal 1964 al 1970 (con un anno di interruzione) il ruolo di consigliera provinciale per il PCI. Anche la politica diventa quindi il mezzo per esprimere l’amore e il rispetto per la sua terra, la cui valorizzazione e protezione sembra essere il grande obiettivo che muove ogni azione lavorativa della giornalista della Marteniga. Il giornalismo rimase comunque sempre un’ancora importante nella vita di Tina Merlin, che tornò a lavorare per L’Unità, fu collaboratrice delle riviste Patria Indipendente, Vie Nuove, Protagonisti e lavorò in Ungheria per un breve periodo presso Radio Budapest. Tina Merlin si spegne il 22 dicembre 1991, dopo un’esistenza intensa spesa a ricostruire la verità nascosta sotto le macerie dell’omertà e della superficialità altrui, tra le crepe del Vajont e nelle difficoltà della vita.

Beatrice Balbinot
Mi chiamo Beatrice, ma preferisco Bea. Amo scrivere, dire la mia, avere ragione e mangiare tanti macarons.

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