
Un racconto di un ricordo che entra sempre di più nelle memorie di qualcuno che avrebbe preferito non riportarlo alla luce. In cosa si sono mutate le farfalle? Il campo di concentramento e il ricordo di esso è il centro dell’opera teatrale, esso si narra attraverso immagini frastagliate, non coerenti, molto insicure, in cui risulta difficile perfino capire cosa sia successo e cosa no.
Questo spettacolo è un arco, un crescendo, una caduta libera nella mente di una persona che ha vissuto il campo ma il cui ricordo è confuso. Esso si mischia con la realtà e perde così sicurezza.
È un arco poiché il ritmo generale, dell’interpretazione in particolare, subisce un mutamento organico e continuo: a inizio spettacolo la comicità la fa da padrona, con una certa spensieratezza nelle battute e nei movimenti; presto l’ironia sostituisce la comicità e le risate prendono un gusto amaro e più greve, per poi andare verso la vera tragedia, il dolore profondo di chi ha forza solo per credere nelle proprie illusioni. È un crescendo poiché la disperazione e la consapevolezza vengono pian piano alla luce, in maniera inesorabile nonostante i continui sforzi per nasconderle, evitarle, racchiuderle. È una caduta libera poiché si precipita ininterrottamente nei meandri inconsci di qualcuno, si vedono le sue barriere crollare fino a quando le sue certezze non sono più tali.
E proprio questo è quello che lo spettacolo fa con lo spettatore: il tema del campo di concentramento è stato parecchio rappresentato, ma qui la novità è la perdita di certezze e di sicurezze nel ricordare quanto sia banale la mera differenza tra buoni e cattivi, come questa polarità non deve essere il centro di tutto.
Il pubblico si abitua ad un clima dello spettacolo per poi essere sballottato in un nuovo luogo della memoria, i punti di riferimento smettono di essere tali diventando altro. Sul palco vi è da solo il protagonista, che dialoga con uno sconosciuto personaggio invisibile dietro le quinte, ma il fiato è tutto di Andrea Robbiano, che sulle sue spalle sostiene tutta questa architettura, e lo fa benissimo.
L’uso della voce è quello che fa più notare la metamorfosi dello spettacolo, con insicurezze che crescono, volute ripetizioni che si ripresentano di più con l’aumentare dell’oscurità. Il tutto fino a quando anche il corpo fa la sua comparsa innalzando pathos e energia, portando in luce ricordi sepolti.
Oltre alla grande interpretazione data, lo spettacolo funziona perché si poggia su di un’ottima scrittura, molto furba e che fa continui occhiolini ad altro oltre l’olocausto, basta stare un attimo accorti e si notano molteplici riferimenti critici e comici. Questi due poli si mischiano nell’immagine del circo, fondamentale nell’opera, esso è metafora della confusione dei ricordi, dell’assurdità che un genocidio è.
Insieme a questa immagine è doveroso citare le farfalle. Il mistero che le circonda è subito compreso ma difficilmente accettato, fondamentale però; esse sono l’ultimo baluardo di speranza per chi, come il narratore, ha oramai solo i ricordi come luogo in cui vivere.