EliSIR è la rubrica di geopolitica e relazioni internazionali curata su Vulcano da SIR – Students for International Relations, associazione studentesca della Statale.
Per il Kazakistan il 2022 è iniziato nel caos: il primo gennaio il governo kazako ha rimosso il tetto imposto al prezzo del GPL, che è subito raddoppiato. Il giorno successivo, nella città di Zhanaozen, a ovest del Paese, sono scoppiate violente proteste tra gli operai dell’industria petrolifera, diffuse nel giro di poco tempo al resto del Paese – principalmente ad Almaty, città più popolosa e cuore commerciale del Kazakistan.
Per far fronte alle proteste, il governo Mamin ha reintrodotto il calmiere al prezzo del gas e ha poi rassegnato le dimissioni, ma non è bastato: la polizia non è intervenuta ad Almaty e le proteste si sono ingrandite, rendendo necessario l’intervento delle forze del CSTO. La Collective Security Treaty Organization (CSTO) è un’alleanza militare intergovernativa composta da Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Russia e Tagikistan. Riunisce quindi ex repubbliche sovietiche che gravitano ancora nell’orbita della Russia e che ne sono dipendenti dal punto di vista della sicurezza.
Il Presidente kazako Tokaev ha invocato l’articolo 4 del Trattato di Sicurezza Collettiva, quello che prevede la mutua difesa tra i membri – nello stesso modo in cui funziona l’articolo 5 della Patto Atlantico. Il Presidente ha giustificato l’intervento accusando i manifestanti di essere delle «bande di terroristi» armate dall’estero e ha bloccato l’acceso a internet per evitare le comunicazioni tra di loro. I contingenti militari delle nazioni del CSTO, circa 2500 unità in prevalenza russe, hanno ristabilito l’ordine in pochi giorni, lasciando sul terreno 225 vittime e oltre 2600 feriti.
L’aumento del prezzo delle materie prime è stato chiaramente un pretesto: la popolazione kazaka, che non è solita manifestare il proprio dissenso così apertamente, ha colto l’occasione per esternare il proprio malcontento riguardo le crescenti difficoltà economiche e la sempre maggiore disuguaglianza.
A partire dal 2015, in seguito al rallentamento della crescita economica dovuto al calo del prezzo del petrolio, in Kazakhistan iniziò un processo di liberalizzazione per smantellare il controllo statale del settore estrattivo. Ma la mancata ripartizione dei proventi ha generato un forte risentimento nei confronti del nuovo sistema economico, che ha assunto un carattere oligopolistico. Con la pandemia e la crisi mondiale dell’energia in corso, la situazione è ulteriormente precipitata ed è bastata una mossa sbagliata da parte del governo per far esplodere la violenza.
La recente impennata nel prezzo del gas è dovuta anche all’”estrazione” di bitcoin. Infatti, da quando la Cina ha proibito il mining di criptovalute lo scorso luglio, molti miners cinesi si sono spostati in Kazakistan, rendendo il paese centrasiatico il secondo produttore mondiale, con quote attorno al 18%, secondo solo agli Stati Uniti. Ma questa attività richiede notevoli quantità di energia, in questo caso generata principalmente dal carbone. Non è da escludere che la crescente domanda di energia per il mining abbia contribuito all’aumento del prezzo, una volta tolto il tetto massimo.
Considerando la situazione politica interna, lo stesso oligopolio che controlla i maggiori asset economici del Paese detiene anche il potere. E la disaffezione verso questo sistema ha certamente giocato un ruolo nello scoppio delle proteste. Anche se formalmente quella kazaka rimane una repubblica democratica di stampo presidenziale, la vita politica del Paese è stata dominata da un solo uomo: Nursultan Nazerbaev. Segretario del Partito Comunista del Kazakistan e Presidente della Repubblica Socialista Sovietica Kazaka nel momento della transizione, quando il suo Paese ottenne l’indipendenza nel 1991 assunse la carica di Presidente della Repubblica, che ha mantenuto fino al 2019. Il testimone è poi passato nelle mani di Tokaev, ma Nazerbaev è tuttora a capo del partito di governo, Nur Otan, ed è stato Presidente del Consiglio di sicurezza nazionale – carica inventata da lui stesso – fino alla rinuncia avvenuta il 5 gennaio. In trent’anni al potere Nazerbaev ha di fatto smantellato il sistema multipartitico, assicurandosi il controllo del Paese attraverso una vera e propria “casta” a lui fedele.
La Russia ha un notevole interesse a garantire la stabilità del vicino meridionale e a evitare che le proteste spodestino una classe dirigente così accondiscendente col Cremlino, maturando così anche un credito nei confronti di essa, che potrà riscattare al momento opportuno. In Kazakistan vive tra l’altro una corposa minoranza russa, circa un quinto della popolazione, concentrata nel nord del Paese. Nonostante questa sia in calo, o forse proprio per questo, Mosca non esita a difendere le minoranze russe oltreconfine da minacce potenziali.
Inoltre, il Cremlino teme che lasciando troppo spazio ai protestanti potrebbe mettersi in moto una di quelle “rivoluzione colorate” che da quasi vent’anni sottraggono ex satelliti sovietici alla sfera d’influenza russa. A partire dalla Rivoluzione delle rose in Georgia nel 2003, queste spinte dal basso verso una maggiore democratizzazione hanno implicato anche uno slittamento verso il campo occidentale. Più che una questione di democraticità, per Mosca si tratta di mantenere in piedi il proprio impero informale, in costante declino negli ultimi trent’anni. La Russia si è resa conto della pericolosità di questo trend e si è opposta duramente sia all’Euromaidan nel 2014, che ha portato allo stallo attuale in Ucraina, sia alle proteste successive alle elezioni in Bielorussia del 2020, che hanno poi visto trionfare – tra le accuse di brogli elettorali – Lukashenka.
Infine, in Kazakistan si trova il cosmodromo di Bajkonur, la stazione di lancio utilizzata dall’Agenzia Spaziale Russa (ma anche dall’Agenzia Spaziale Europea), un’infrastruttura vitale in questo momento di “nuova corsa allo spazio”.
Dal punto di vista geopolitico, il Kazakistan rappresenta un immenso stato-cuscinetto che divide Cina e Russia.
Nonostante il recente allineamento tra le due potenze in funzione anti-statunitense, queste evitano di pestarsi piedi a vicenda. E proprio in Kazakistan – e in generale nell’intera area centroasiatica – hanno stabilito un condominio informale per cui alla Russia, forte del retaggio sovietico, è delegata la sicurezza, mentre Pechino ha assunto nel corso degli ultimi due decenni una notevole influenza economica, facendo del Kazakistan uno snodo fondamentale per la Belt and Road Initiative. E infatti per sedare le proteste è stata chiamata in causa la CSTO, organizzazione in cui la Cina è assente, e non ad esempio la Shangai Cooperation Organization (SCO), ente regionale asiatico a trazione cinese.
La Cina guarda con preoccupazione qualsiasi scossone ai propri confini occidentali, non solo per mantenere il primato economico, ma anche e soprattutto per la stretta correlazione che esiste tra Kazakistan e Xinjiang: una cospicua minoranza di uiguri (oltre 200.000 persone) vive in Kazakistan e le rivolte di gennaio potrebbero rappresentare un esempio per gli uiguri cinesi, un precedente molto pericoloso per Pechino. Stati Uniti e Unione Europea intanto stanno fermi a guardare: i primi, avendo perso un appoggio importante in Asia Centrale dopo il ritiro dall’Afghanistan, non hanno grandi possibilità di interferire, ma finché la stabilità è salva Washington può continuare a concentrarsi su ciò che conta davvero: il contenimento cinese. L’UE, d’altra parte, tira un sospiro di sollievo: i 27 rappresentano il primo mercato per gli export del Kazakistan, per la gran parte materie prime – petrolio e gas, ma anche uranio – di cui il Kazakistan è il primo produttore mondiale. Un minerale che ricoprirà un ruolo sempre più importante nel processo di transizione ecologica per l’impiego nella produzione di energia nucleare.
Articolo di Andrea Stucchi.
In copertina: le truppe del CSTO dispiegate ad Almaty.