Il format è quello di un safe space, un luogo in cui le persone intervistate raccontano la propria storia. Negli studi di We Are Era, Daphne Bohémien diventa la conduttrice di un programma con un format particolare. La parola d’ordine è: rilassati e raccontaci un po’ di te. L’atmosfera è accogliente, i divanetti sembrano comodi e come antistress abbiamo un cuscino a forma di cuore con le braccia arcobaleno. E via che si parte!
Le tematiche affrontate sono tutte sensibili: dalla salute mentale alla disabilità, dal privilegio all’islamofobia. Secondo Daphne questo progetto «non voleva essere niente di rivoluzionario. Volevamo trattare non delle tematiche, ma delle persone». Le storie, si sa, sono sempre soggettive, in quanto chi le vive in prima persona può raccontare meglio di chi non si è mai interfacciato a una determinata situazione. Daphne continua dicendo che si voleva «rendere le tematiche meno teoriche, per renderle più pratiche». Questo non significa che si tratti di tutto con superficialità, anzi, rendendo il tono più leggero si permette a molte più persone di fruire del prodotto senza il bisogno di un approccio accademico o pietistico. I’m like that è accessibile: sia dal punto di vista pratico, ad esempio ha i sottotitoli per facilitare gli spettatori non udenti, ma anche da un punto di vista dei contenuti.
«Non volevamo la pornografia del dramma»: con questa frase Daphne condensa tutto lo spirito del format. Mettere in scena dei problemi reali con la leggerezza e la risata, mantenendo comunque il loro grado di importanza, non è cosa da poco. «Si vuole far vedere che le persone di categorie marginalizzate sì soffrono, ma sorridono e si raccontano come ogni altr*». Questo elemento è fondamentale per una narrazione che si rivolga a tutte le persone: rappresentare sempre le categorie marginalizzate come sofferenti non le aiuta, per niente.
Prendiamo l’esempio di una persona con disabilità: se per tutta la vita l’unica rappresentazione che ha di sé nei media è su una sedia a rotelle con il sottofondo di musica tragica, è molto probabile che non ci si riconosca a pieno in altre situazioni. Servono più modelli plurali nei media, e Daphne ci dà un buon esempio. Per aiutare le persone dimenticate dalle narrazioni dei media, servono nuove narrazioni che siano plurali. Lei continua dicendo «non serve che queste persone sviscerino il loro dolore per essere validate come persone». Esiste una vita fuori dal problema ed è tutta da scoprire, al di fuori delle narrazioni pietistiche. Ad esempio nell’episodio n.9 l’intervistata è Lunny, una ragazza autistica, e qui si parla anche della vita sessuale di persone autistiche, dettaglio che spesso è oscurato dalle necessarie definizioni sullo spettro, che, però sembrano esaurire in quello tutta la narrazione.
Nei video si nota chiaramente l’atmosfera rilassata. Gli ospiti sono a loro agio, viene chiesto loro quali pronomi preferiscono, e via con le domande. Daphne, insomma, ha saputo creare un luogo in cui sentirsi al sicuro e poter parlare apertamente. Gli spettatori non si sentono distaccati, anzi, cliccate play in un video qualsiasi e vi sentirete piazzati sui divanetti con il cuscino a forma di cuore tra le mani!
Secondo Daphne la volontà è quella di «creare connessioni»: si crea un legame con l’ospite, ma anche con chi ascolta e vede, ma non solo con chi appartiene alla categoria marginalizzata di cui si sta trattando.
Anche chi è estraneo ai problemi degli altr* può prendere un nuovo spunto per comprendere quanto ci siano storie sempre diverse e, magari, può capire un po’ di più su come porsi. Spunti che si possono prendere anche come punti di riferimento, perché seguendo chi è intervistat* sui social, si può creare una propria bolla di persone che trattano tematiche sensibili e importanti vivendole in prima persona. A questo punto non si può rimanere indifferenti.
I’m like that è decisamente il prodotto fresco e nuovo di cui avevate bisogno, chiunque voi siate, sarà un tuffo leggero nelle storie di persone estremamente interessanti, prima fra tutt* la sua conduttrice. Daphne Bohémien è infatti una performer e content creator. Il suo lavoro sui social si intreccia con l’attivismo e con la capacità di narrare le vicende quotidiane in modo trasparente. Dice spesso «io sono così», la versione social di lei non si allontana dalla persona reale, anzi. Ci sono le giornate storte, le giornate no, quelle fantastiche e quelle at the top of the sky, come per tutt*: per questo motivo ci tiene a sottolineare che servano più narrazioni reali.
Influencer che mostrano solo i lati positivi della propria vita sono quell* che spingono a credere che la loro vita sia sempre perfetta, mai una piega. La vita, però, non è così per nessun* e ci sono persone che vogliono dare una nuova direzione al lavoro social, proprio come Daphne. Ci ha confessato che «ci sono anche le giornate in cui non posto nulla, perché non sto ben» e anche questo è un aspetto da normalizzare: in qualsiasi altro lavoro si prendono giorni di malattia per sentirsi meglio, quindi perché ci aspettiamo che chi è content creator sia ogni giorno pront* con le energie al massimo? Qui non si tratta soltanto di salute fisica, ma anche di salute mentale. Prendersi cura del proprio benessere mentale non è un vizio o una moda del 2022, è un diritto.