
Dall’inglese leak, fuga (di notizie) ma anche falla: Wikileaks infatti rappresenta un buco, un’anomalia, nel sistema del potere segreto americano – ma anche mondiale. Piattaforma comparsa in rete nel 2006 con l’obiettivo di pubblicare documenti riservati e promuovere in questo modo la trasparenza da parte di governi e istituzioni, Wikileaks e il suo creatore, il giornalista e attivista australiano Julian Assange, finiscono presto per ottenere lo status di minaccia alla sicurezza e alla reputazione delle grandi democrazie.
La verità rappresenta l’unico imperativo morale di una resistenza che, nell’attuale società dell’informazione, ha luogo nella rete e insorge contro il discorso dominante e l’imperialismo americano attraverso la diffusione di notizie dalle quali la collettività viene deliberatamente esclusa. Del resto, citando George Orwell e il distopico mondo di 1984, «ignorance is strenght». Questa ribellione tecnologica, tuttavia, sta per avere il suo primo martire: Assange, infatti, è detenuto nel carcere inglese di Belmarsh dal 2019 e lo scorso dieci dicembre l’Alta Corte di Londra ha ribaltato la sentenza emessa dalla giudice Vanessa Baraitser che negava l’estradizione del giornalista negli USA per l’effetto che avrebbe potuto avere sulla salute mentale di Assange, già a rischio suicidio secondo gli psichiatri. Il caso adesso verrà riesaminato dal tribunale di grado inferiore: nel frattempo, Assange continuerà a essere detenuto – formalmente, a scopo preventivo – in quella che viene definita la Guantantamo inglese.
Ma cosa rischia davvero il fondatore di Wikileaks e quando ha inizio la sua epopea giudiziaria?
Nel corso del 2010 Wikileaks pubblica migliaia di documenti militari riservati – gli Afghan war logs e Iraq war logs, tra cui il video noto come Collateral Murder – che espongono l’altra faccia di guerre, che, a dispetto di quanto la propaganda voglia farci credere, non si esauriscono nella narrazione buoni/cattivi o nell’esportazione della democrazia – mania degli occidentali. La massiccia fuga di file segreti ha rivelato i crimini contro l’umanità perpetrati dall’esercito statunitense e i suoi alleati NATO in Iraq e Afghanistan, mandando così in pezzi la macchina di bugie e omissioni orchestrata dal Pentagono per costruire consenso.
A distanza di pochi mesi dal rilascio dei report dei militari americani, nel novembre del 2010 Wikileaks diffonde circa 250.000 “embassy cables“, rapporti inviati dalle ambasciate americane nel mondo a Washington contenenti informazioni classificate come “non riservate”, “segrete” o “confidenziali” – dunque nessun documento top secret – che causano un vero terremoto politico: non solo trapelano valutazioni ben poco diplomatiche dei vari leader internazionali (Berlusconi, per esempio, viene descritto come “il portavoce di Putin in Europa”), ma viene portato alla luce, tra le altre cose, il programma di spionaggio dei vertici delle Nazioni Unite ordinato dal segretario di Hillary Clinton, la vendita di missili dalla Corea del Nord all’Iran e la richiesta da parte dei paesi arabi di affrontare il problema dell’armamentario nucleare iracheno. Insomma, è ormai chiaro a tutti che Assange non è un semplice giornalista ficcanaso ma rappresenta una concreta minaccia per il segreto di Stato.
Nel 2010 Assange si trova per lavoro nel Regno Unito quando la Svezia emette un mandato di arresto internazionale per molestie sessuali nei suoi confronti. Assange nega le accuse parlando di processo politico intentato per estradarlo negli Stati Uniti: il suo avvocato, infatti, comunica al network Al Jazeera di essere venuto a conoscenza di una riunione segreta del Grand Jury di Alexandria, in Virginia, per avviare un procedimento penale contro il fondatore di Wikileaks. La Svezia, senza fornire giustificazioni, rifiuta le richieste del team legale di Assange di essere interrogato a Londra e chiede alle autorità britanniche l’estradizione per poter avviare le indagini preliminari e quindi decidere se incriminare effettivamente il giornalista o archiviare il caso. Assange, il 7 dicembre 2010, si consegna a Scotland Yard, sconta nove giorni di carcere per poi essere rilasciato su cauzione in attesa del verdetto sulla sua estradizione. Dopo una lunga battaglia legale la Corte suprema britannica accoglie la richiesta della giustizia svedese ma Assange chiede e ottiene asilo politico all’ambasciata ecuadoregna a Londra:
In un modo o nell’altro, Assange finisce in prigione. Se mette piede fuori dall’ambasciata, le autorità britanniche lo arresteranno.
Trascorre quasi sette anni in questo limbo diplomatico e legale, durante i quali la procura svedese archivia il caso. Un mandato d’arresto britannico e internazionale nei suoi confronti, però, c’è ancora, per non essersi presentato al tribunale londinese che avrebbe dovuto decidere sulla sua estradizione. Da una giurisdizione all’altra, il destino di Assange sembra segnato. «Spostalo (Julian Assange) da un paese all’altro per affrontare varie accuse per i prossimi 25 anni», è quello che si legge – in seguito alla pubblicazione da parte di Wikileaks – nella corrispondenza e-mail dell’agenzia privata di intelligence Stratfor con alcuni funzionari americani.
Ad aprile del 2019, il presidente dell’Ecuador eletto tre anni prima, Lenin Moreno, revoca l’asilo politico ad Assange – sebbene questi disponesse della cittadinanza ecuadoregna dal 2018 – e consegna il giornalista alle autorità britanniche. Sempre nel 2019, mentre viene condannato dalla Westminster Court a scontare 50 settimane nel carcere di Belmarsh, gli Stati Uniti lo accusano di intrusione informatica e di spionaggio per i quali rischierebbe fino ai 170 anni di reclusione e persino la pena di morte. A destare scalpore è in particolare quest’ultima accusa, poiché gli USA hanno deciso di perseguire Assange sulla base di una legge – l’Espionage Act – risalente al 1917 e mai fino ad ora usata contro un giornalista, tutt’al più considerando che Assange non ha effettivamente cospirato con nessun paese straniero. Inoltre, il governo americano non è stato in grado di fornire un solo nome delle persone messe in pericolo dalle pubblicazioni di Wikileaks. Processare Assange su queste basi pertanto creerebbe un pericoloso precedente, in quanto ricevere informazioni da fonti, verificarle e pubblicarle se sono di interesse pubblico è parte integrante del giornalismo. Criminalizzarlo significherebbe condannare virtualmente ogni giornalista.
La storia di Assange è l’ennesima prova dell’ipocrisia di un sistema che si dichiara fondato sulla libera informazione e la libertà di espressione. Il democratico Occidente si è infatti schierato immediatamente dalla parte dell’ultranazionalista Alexei Navalny, il più famoso oppositore di Putin, condannando Mosca per aver violato i suoi diritti morali e materiali, eppure le accuse mosse a Navalny non sono molto diverse da quelle rivolte ad Assange, isolato e demonizzato dal mondo che si autoproclama libero. La Russia accusa Navalny di cospirare con la CIA e Washington accusa Assange di collaborare con i russi: entrambi i personaggi uniti nella volontà di opporsi al potere ed esporre le sue nefandezze, la sua corruzione. Entrambi fedeli a una sola istituzione: la verità. Anche a costo della vita.
«Ogni rilascio di materiale che facciamo ha un secondo messaggio: se hai a che fare con pratiche ingiuste, immorali, questo verrà scoperto, verrà rivelato e tu ne pagherai le conseguenze», parole di Assange. Si tratta di una sentenza solenne, quasi il pronostico di un giudizio universale, la rivendicazione di un’informazione che sia obiettiva, non manipolata dallo Stato: un diritto per cui molti sono disposti a continuare a lottare, per Assange e tutti i giornalisti imprigionati perché svolgevano il loro lavoro. Nel 2021, infatti, secondo l’annuale bilancio di Reportiers sans frontiére, organizzazione che si occupa di promuovere la libertà di stampa, sono circa 488 i giornalisti reclusi nel mondo, il numero più alto mai registrato.