L’anno è iniziato da solo un mese e le vacanze estive sembrano ancora lontane, ma presto inizieranno le ricerche dei voli e delle case da affittare e ci verranno in soccorso le solite piattaforme online, tra le quali Airbnb domina incontrastata. Con qualche click si riesce agevolmente ad affittare un alloggio nel centro storico di una qualsiasi città d’arte. Ma, come spesso succede, alla comodità ed economicità della scelta del consumatore funge da contrappeso una somma di fenomeni molto complessi e non sempre positivi.
Airbnb è un’idea nata dalle menti dei neolaureati in design industriale Brian Chesky e Joe Gebbia a San Francisco, tra il 2007 e il 2008, a ridosso della grande crisi finanziaria di quegli stessi anni, che ha causato un aumento della disoccupazione e una riduzione dei salari. Airbnb è quindi arrivata in un momento cruciale, offrendo una modalità efficace – e relativamente semplice – di integrare i propri guadagni (o di conseguirne) a chi si è trovato in difficoltà, mettendo contemporaneamente a disposizione posti letto e stanze a prezzi vantaggiosi.
Nel 2014, Chesky ha pubblicato su Medium il post “Shared City”, una sorta di manifesto programmatico nel quale Airbnb viene presentata come un’azienda che avrebbe aiutato le città a rinascere, a produrre di più e a creare un senso di comunità: «Sharing in cities is back, and we want to help build this future. We are committed to helping make cities stronger socially, economically, and environmentally».
A quindici anni dalla nascita di Airbnb viene spontaneo tirare le somme e chiedersi se il programma di Chesky sia stato realizzato.
Le problematiche e le criticità legate a questa sharing economy hanno portato, nel 2015 e proprio nella culla natale di San Francisco, a un referendum comprendente la misura denominata Proposition F. Questa avrebbe avuto la finalità di regolare gli affitti brevi degli alloggi sulle piattaforme online, introducendo il limite di massimo 75 notti all’anno, nonché l’obbligo, in capo ai proprietari, di trasmettere al San Francisco Planning Department un report degli affitti e, infine, la possibilità per i residenti e le organizzazioni non lucrative di intentare causa ad Airbnb e ai soggetti locatori.
Il referendum, alla fine, è stato respinto e la Proposition F non è stata applicata, ma la cittadinanza si è dimostrata divisa: il no ha vinto con il 55%. Quali sono state le ragioni di un fronte e dell’altro? I sostenitori del sì sono stati spinti dalla convinzione che Airbnb abbia reso eccessivamente costoso e difficile abitare a San Francisco, perché per i proprietari è più conveniente affittare gli immobili a breve termine. I sostenitori del no, invece, sono motivati dalla visione di Airbnb come una importante forma di sostentamento per i cittadini della città della California.
Il referendum, per quanto infruttuoso, ha comunque iniziato a evidenziare le crepe di questo sistema. Airbnb, al suo esordio, si è presentato (e continua a presentarsi) come un’azienda in grado di offrire a tutti una facile possibilità di guadagno, ma gli inquilini si sono trovati di fronte a una situazione di precarietà e al timore di essere sfrattati per la scelta dell’affittuario di destinare le proprietà ai più remunerativi affitti occasionali. Inoltre, la sottrazione di case dal mercato residenziale ha causato un aumento dei prezzi di quelle disponibili.
Tutto ciò è stato percepito dalle autorità cittadine e statali che, in primis negli Stati Uniti, hanno iniziato a muoversi per regolamentare gli affitti a breve termine.
Anche l’Europa è stata attraversata dal successo di Airbnb e dalla conseguente necessità di controllare questa diffusione a macchia d’olio. Ad esempio, a Barcellona, già nel 2016, Airbnb è stata multata per aver messo in affitto proprietà immobiliari non registrate. A Parigi, invece, nell’aprile del 2021 è stato approvato un regolamento per sperimentare l’introduzione di un numero massimo di appartamenti destinati ad affitti brevi in alcune zone.
In Italia, per la cosiddetta “legge Airbnb” (decreto legge 50/2017, art. 4) gli intermediari attivi negli affitti brevi (inferiori ai trenta giorni) sono obbligati a comunicare i dati dei locatori e ad applicare una ritenuta d’acconto del 21%. Airbnb ha giudicato questa legge discriminatoria nei confronti di “piattaforme, intermediari che riscuotono i pagamenti e host che fanno uso di tali piattaforme” e ha impugnato la legge in tribunale.
Per il resto, in Italia ancora non si è riusciti a porre un freno al proliferare degli affitti brevi. E sì che l’Italia è al centro di tutte le problematiche che interessano Airbnb e il turismo di massa. Basti pensare che a Matera il 25% delle case nel centro storico è affittato ai turisti con Airbnb, a Firenze il 18% e a Roma l’8%. A Venezia, altra città fulcro dei Gran Tour del terzo millennio, il 26% dei cinquemila host gestisce più dei due terzi degli ottomila annunci in area immobiliare. Un dato che va contro la presentazione di Airbnb come amica dei piccoli proprietari e che evidenzia un fenomeno in diffusione, ossia l’utilizzo della piattaforma da parte di grandi società immobiliari.
Nell’ultimo anno, però, Airbnb, il Parlamento europeo e la Commissione europea hanno intavolato un dialogo per elaborare una normativa unica in materia di affitti brevi, a cui è seguita una lettera di Chris Lehane, Senior Vice President of Global Policy and Communication di Airbnb. La richiesta di Airbnb sono leggi e linee guida chiare per cercare di contrastare anche il fenomeno dell’overtourism, insostenibile soprattutto a livello ambientale.
È dunque chiaro a tutti: è cambiato il modo di abitare e di vivere le città.
In nuovi contesti servono nuove parole, motivo per il quale è stato coniato il termine città merce, utilizzato dalla giornalista Sarah Gainsforth nel suo saggio Airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale. La città merce è uno spazio abitabile e abitato da ricchi e governato da flussi – di soldi e persone – gestiti da piattaforme digitali. In questa città sulle funzioni urbane dominano le commerciali e si assiste a un continuo avvicendarsi di attività che chiudono una dopo l’altra, oltre al “rialzo dei valori immobiliari e i canoni di locazione, la contrazione di offerta di case in affitto e, dunque, l’espulsione dei ceti medi e bassi dai centri urbani”.
Tutto ciò ha investito anche il fenomeno del turismo: dalla gentrificazione, riqualificazione e rinnovamento di quartieri, con aumento degli affitti e allontanamento degli abitanti originari, si è passati alla turistificazione. I turisti riempiono le città solo per brevi periodi, ma queste si modellano in via abbastanza definitiva sulle necessità degli avventori transitori. Le conseguenze negative vanno dall’aumento del costo alla vita, alla monotematizzazione delle attività commerciali e, di conseguenza, alla perdita di autenticità dei luoghi.
Ma Airbnb ha portato anche a conseguenze positive, perché sembra che la piattaforma spinga le persone a viaggiare di più, organizzando viaggi nuovi e prolungando la durata di viaggi già organizzati. Se tutti questi viaggi fossero compiuti in maniera responsabile e non predatoria, il turismo genererebbe un indotto e una valorizzazione non indifferenti per le località interessate.
Queste riflessioni scaturiscono anche dal fatto che, a causa di lockdown e restrizioni, negli ultimi due anni le città interessate da sharing economy e affitti brevi si sono viste di colpo svuotate. La turistificazione, gli affitti brevi e le speculazioni si sono prese una pausa solo temporanea o è giunto il momento di ripensare definitivamente la città e il turismo?