Esattamente cent’anni fa, il 27 gennaio 1922, ci lasciava Giovanni Verga, padre del Verismo italiano, grande scrittore e drammaturgo, amante di cinema e fotografia, una delle colonne portanti della nostra letteratura.
Come tanti altri, prima e dopo di lui, Verga viene costantemente ricordato, soprattutto all’interno dei programmi scolastici, e le sue opere vengono insegnate e trasmesse. Cercando, però, di andare oltre a una semplice fruizione nozionistica di questo autore si potrebbe proporne una rilettura in chiave più contemporanea; così facendo ci si renderebbe conto quanto un uomo come Verga abbia ancora molto da insegnare anche alla nostra società attuale. Ma, per fare ciò, bisogna partire dai suoi primi lavori.
La sua intensa attività letteraria comincia proprio in Sicilia, la sua regione natale, quando decide di non terminare gli studi di Legge all’Università di Catania per occuparsi completamente di letteratura e giornalismo politico. Verga, però, è convinto che per diventare uno scrittore affermato sia necessario discostarsi il più possibile dagli ambienti provinciali, dai quali lui stesso proviene, per poterne superare i limiti ed entrare in contatto con la vera società letteraria italiana. Si reca, dunque, prima a Firenze e successivamente a Milano. Proprio in questa città, grazie alla forte amicizia con Luigi Capuana, che per primo aveva diffuso in Italia le teorie letterarie dei romanzi naturalisti, comincia ad avvicinarsi a questa corrente.
Saranno poi la delusione postunitaria e la crisi degli ideali risorgimentali a spingerlo, sempre di più, verso una nuova prospettiva letteraria: il Verismo.
Se nelle sue opere precedenti Verga aveva focalizzato la sua attenzione solo sulla rappresentazione del mondo dell’alta società, ora, con la svolta verista, decide di dare maggior rilievo agli ambienti contadini e popolari, nuovo punto di partenza per lo sviluppo di una riflessione molto più ampia e complessa sulla struttura e i meccanismi della società.
Trattando il tema con assoluta impersonalità e oggettività, come se fosse un semplice osservatore esterno, Verga mette in scena, in numerose novelle e romanzi, personaggi provenienti proprio dalla sua Sicilia, gente semplice, dedita ai lavori più umili, costretta a vivere in maniera precaria, in totale balia del progresso. Per poter sopravvivere a questi cambiamenti, ognuna di queste persone dovrebbe cercare di rimanere il più possibile legato alle proprie tradizioni e ai propri valori, per non perdere un punto di riferimento. Ma la voglia di restare al passo con i tempi, di avventurarsi in strade sconosciute e accattivanti, non fa altro che trasformarli in “vinti”, costretti a diventare sempre più deboli, sottomessi ai potenti che diventano, invece, sempre più forti.
Quello delineato da Verga, sembra quasi essere il ritratto della nostra società contemporanea: rileggere oggi opere come I Malavoglia, Mastro Don Gesualdo o Rosso Malpelo ci permette di capire quanto questi racconti siano ancora attuali.
Ognuno di noi potrebbe essere uno dei personaggi rappresentati, partecipe del grande meccanismo progressista e capitalista, manovrato dalle decisioni dei potenti, i grandi magnati del mondo.
Se, nella prospettiva pessimistica di Verga, non ci sono vie di fuga per il destino della società dei “vinti”, oppressi dai forti, adesso invece, consapevoli dei significati profondi racchiusi in quei semplici racconti di vita quotidiana, potremmo ricavarne una riflessione più ottimistica: è inevitabile, nel mondo odierno, doversi adattare alle grandi trasformazioni, cercando di tenersi sempre aggiornati per non restare indietro rispetto agli altri. Eppure, ciò dovrebbe accadere senza mai dimenticare i veri valori della vita, quelli più importanti, che caratterizzano l’essenza di ogni singolo individuo. Solo così, pur immersi in un’esistenza fortemente dinamica, ci si può preservare realmente, senza perdersi nella folla, come ci insegna ancora oggi Verga, dopo cent’anni dalla sua scomparsa.