
Partiamo da un presupposto: avere una lingua unica, regolata, portatrice magari di un’antica cultura, può essere un fattore di aggregazione decisivo per un popolo che voglia costruire una qualche unità politica. Pensiamo all’Italia, una penisola a lungo divisa e bellicosa che ha visto la «battaglia» per l’adozione e, prima ancora, la definizione di una lingua unica, svilupparsi per anni, secoli, tra accesi dibattiti culturali, saggi, giochi di potere, guerre in stretta connessione col progetto di uno stato.
Negli ultimi tempi, nell’Africa subsahariana, sembrano aver ripreso forza spinte affinché si adotti una cosiddetta «lingua franca», lo swahili, per unire in qualche modo i ben 48 paesi del subcontinente. E così anche, in qualche modo, superare il legame attuale con le ancora diffuse, ma spesso odiate, lingue «coloniali», come il francese e l’inglese.
Ma è davvero possibile?
Tralasciando per ora la storia più risalente, gli ultimi avvenimenti sembrano avvalorare questa ipotesi. Nella sua recente riunione di capi di stato, l’Unione africana ha adottato lo swahili come lingua di lavoro ufficiale. Nel 2019 è diventata l’unica lingua africana ad essere riconosciuta dalla Comunità per lo sviluppo dell’Africa australe (SADC) e bisogna tenere conto che è anche la lingua per eccellenza, oltre all’inglese, usata dalla Comunità dell’Africa orientale (EAC). Anche a livello accademico, lo swahili si sta diffondendo tanto che l’Università di Addis Abeba ha annunciato che inizierà a insegnarla e diversi linguisti prevedono che continuerà a espandersi.
Tra questi, Tom Jelpke, ricercatore presso la Scuola di Studi Africani e Orientali di Londra, il quale in una recente intervista ha dichiarato ai microfoni della BBC che, con l’aumento delle relazioni tra i diversi stati, aumenterà anche l’esigenza di consolidare una lingua comune che ben potrebbe essere lo swahili. E della stessa opinione è anche Ally Khalfan, docente dell’Università statale di Zanzibar, che vede lo swahili come lingua portatrice dell’auspicata, anche se ancora lontana dal materializzarsi, identità africana.
Per capire perché sia proprio questa lingua ad essere tra le più quotate candidate a porsi come lingua comune del subcontinente Africano nei prossimi anni, è necessario considerare aspetti sia geografici che storici e linguistici.
Partiamo da un dato: lo swahili (da sahil, costa in arabo) si sviluppò a partire dal I secolo a.C., secondo le prime testimonianze, come lingua commerciale d’uso per le rotte che univano l’Africa all’Asia. E questo influenzò le culture dei popoli della costa sud-orientale dove tutt’ora è possibile vedere la mescolanza di elementi arabi, bantu ma anche indiani. E sono tanti i vocaboli che, a livello linguistico, testimoniano la grande multiculturalità dello swahili, come ad esempio zanzariera, dall’hindi, o il termine ministro, dall’arabo. Ma è possibile ritrovare anche più tardivi prestiti dal portoghese, dall’inglese e dal tedesco.
Oggi, questa antica lingua è ufficiale, con circa 15 milioni di parlanti, solo in Tanzania, Kenya, Uganda e Ruanda e, nazionale, in Congo. Ma secondo le recenti stime dell’organizzazione di fama internazionale, Ethnologue, vanta altri 54 milioni di cittadini africani che la usano come seconda lingua e oltre 200milioni di parlanti a livello globale.
Inoltre, lo swahili fa parte delle lingue bantu, ovvero del gruppo linguistico nettamente più comune in Africa, e quindi vanta numerose somiglianze con buona parte delle altre lingue africani correnti, con tutti i vantaggi che ne derivano. In questo senso potrebbe apparire come una sorta di interlingua capace di far comunicare persone di differenti tradizioni e culture.
D’altra parte, ad oggi, la visione dello swahili come lingua franca del subcontinente africano sembra più un’utopia che non un plausibile futuro.
Dagli anni Sessanta, quando il presidente della Tanzania, Julius Nyerere, fu tra i più decisi sostenitori dell’adozione di questa lingua come panafricana in vista di una sempre più forte unità post-coloniale, molte altre voci si sono levate, sia dal mondo della cultura che da quello della politica.
Ma tirando le somme, francese e inglese ricoprono ancora un ruolo fondamentale in numerosi paesi, come seconde lingue o addirittura come lingue «nazionali» in contesti marcatamene plurilinguistici. Senza dimenticare la larga diffusione di lingue come l’hausa, il fula o l’igbo che sono più concorrenti per l’egemonia che non alleate dello swahili contro l’ipotetica riduzione d’uso delle lingue coloniali, oltretutto ritenute, da molti, imprescindibili compagne nel commercio e nelle relazioni con l’estero.
Sullo sfondo c’è poi la questione della volontà davvero di costruire un’unità africana in un contesto dove i legami esterni, oggi anche con un nuovo potere come quello cinese, sembrano ancora nettamente prevalere su quelli panafricani. In tale contesto manca ancora non solo a livello popolare ma anche a livello di élite la stessa idea di dar vita a una cultura africana comune in vista di una comune identità di popolo, anche se emergono a livello intellettuale spinte in tale senso.