“L’8 marzo non è una festa, è una giornata di protesta”, recitava uno dei tanti cartelloni che sono stati esibiti dalle e dai manifestanti durante i cortei organizzati a Milano: quello studentesco, partito alle 9.30 da Largo Cairoli, e quello cittadino, radunatosi in Piazza Duca d’Aosta alle 18.
Effettivamente, bisognerebbe riferirsi all’8 marzo come alla Giornata internazionale dei diritti della donna, piuttosto che alla Festa della donna. La distinzione non è puntigliosa, perché l’adesione alla prima o alla seconda visione comporta l’attribuzione di un significato totalmente differente a questa giornata. Per noi, l’8 marzo è una giornata di lotta e di rivendicazioni: una giornata che deve essere occasione per fare il punto sulla situazione delle donne, per mettere in discussione le fondamenta della società in cui viviamo, consapevoli delle ripercussioni che il capitalismo, il razzismo, l’indifferenza nei confronti dell’ambiente, l’omotransfobia e ogni tipo di fascismo hanno sulla vita delle donne.
Mentre seguivamo il corteo studentesco, abbiamo domandato alle e ai partecipanti in cui ci siamo imbattute quale fosse il significato attribuito alla giornata dell’8 marzo e quali fossero le principali rivendicazioni da loro portate avanti.
«Per me scendere in piazza oggi significa ricordare innanzitutto che l’8 marzo non è una festa» ha ribadito Deborah Perrotta, studentessa di vent’anni presso l’Istituto di Fotografia di Milano. «Inoltre, sono qui perché desidero lottare affinché alcuni diritti che ancora non siamo riuscite ad ottenere possano essere finalmente riconosciuti a tutte le donne. Questa giornata serve per ricordare anche quei diritti che sono stati ottenuti dalle nostre compagne durante le precedenti ondate femministe e che però continuano ad essere messi in discussione. Un esempio è quello dell’aborto, diritto che formalmente viene riconosciuto, ma che spesso in Italia non può essere esercitato a causa dell’elevatissimo numero di obiettori di coscienza».
«Una delle motivazioni per cui abbiamo aderito a questa giornata di lotta è la necessità di far aprire gli occhi a coloro che, per un motivo o per l’altro, ancora non possiedono una sensibilità nei confronti di queste tematiche – ha affermato una studentessa appartenente al collettivo Mille papaveri rossi del liceo Carducci di Milano. Bisogna poi mantenere alta la coscienza e consapevolezza globale riguardo alle tematiche femministe, perché c’è ancora molta strada da fare. Vi sono ancora tantissime disuguaglianze, visibili soprattutto negli ambiti lavorativo e scolastico, ad esempio per quanto riguarda la retribuzione: questo è inaccettabile».
Antonella Polisena, a nome della Casa delle Donne di Milano, associazione che offre occasioni di informazione, riflessione e scambio di esperienze a chiunque, senza discriminazioni di nessun tipo, sottolinea che l’otto marzo non è diverso da tutti gli altri giorni: «A differenza di quanto declamato dagli slogan più comuni, per noi dire che l’otto marzo sia un giorno di lotta è quantomeno banale: noi lottiamo ogni giorno. E lo facciamo non solo in occasioni ufficiali, in momenti eclatanti quali l’otto marzo o il venticinque novembre, è una lotta che portiamo avanti nel mestiere di tutti i giorni, nei nostri contesti quotidiani. L’otto marzo è il giorno in cui tiriamo le fila di questa lotta: prendiamo fiato per guardarci intorno, capire a che punto siamo arrivate, la strada guadagnata e quella – tanta – che c’è da percorrere. Ci scambiamo uno sguardo tra sorelle e compagne, ci riprendiamo la mano e via ripartire».
Dopo due anni di piazze prevalentemente virtuali, inoltre, si sente tutta la necessità di riprendersi le strade e gli spazi di aggregazione, come ci spiega Fra(m)menti, collettivo transfemminista queer, che si interessa dei legami tra arte e femminismo: «Lotto marzo è un momento di rivendicazione di diritti e lotte, di occupazione dello spazio pubblico e di presa di visibilità e coscienza del nostro potere collettivo e della nostra rabbia in quanto soggettività marginalizzate. Per Fra(m)menti, collettivo relativamente giovane che vuole ancora cercare di capire e di capirsi e uscire da una dimensione prevalentemente online dettata dall’emergenza COVID-19, è un modo per ritrovarsi, condividere vissuti, gioia e vicinanza fisica e politica.
È un’occasione anche per smascherare la brutalità dei generi binari e dell’eterosessualità obbligatoria e ricordare con forza in piazza che la violenza non è “solo” patriarcale, bensì eterocispatriarcale e coloniale».
Le forme che questa violenza assume sono diversificate e la maggior parte delle donne ne fa esperienza fin dalla giovane età. Ma a questo controllo violento molte decidono di reagire: «Non accetto più il fatto di non poter uscire la sera con delle amiche senza avere paura, oppure di temere che il mio vicino di casa, se rimasto solo con me, possa farmi del male – racconta una ragazza di sedici anni che studia presso un liceo artistico di Milano. La sera non posso stare fuori fino a tardi perché mi è capitato di essere rincorsa nel quartiere dove abito. Oggi sono qui in piazza tanto per me quanto per le mie amiche, perché so che anche loro potrebbero trovarsi in situazioni simili». Le chiediamo quindi se lei o le sue amiche abbiano mai ritenuto necessario adottare alcuni accorgimenti prima di uscire di casa, per sentirsi più sicure, e ci risponde: «Purtroppo sì, per paura a volte teniamo nelle tasche qualche oggetto con il quale poterci difendere in caso di bisogno, come le chiavi di casa piuttosto che uno spray al peperoncino».
«Non è normale che ad oggi non vi sia parità dei sessi. Ritengo che in Italia questo obiettivo non sia ancora stato raggiunto» ha affermato Sveva, sedici anni, quando le abbiamo domandato perché abbia scelto di scendere in piazza. Le abbiamo anche chiesto in quali momenti della sua quotidianità senta maggiormente il peso di queste discriminazioni: «Sicuramente nel momento in cui mi vengono rivolti apprezzamenti indesiderati e spesso volgari quando, ad esempio, esco di casa vestita in un certo modo. A volte mi è capitato di ricevere commenti spiacevoli sul mio abbigliamento anche da parte dei professori, atteggiamento che però questi non assumono con i miei compagni uomini. Spero davvero che le cose possano cambiare, ma non penso sarà facile. Intanto, dobbiamo gridare il più forte possibile e cercare in tutti i modi di farci ascoltare: oggi siamo qui per questo».
Poco più avanti incontriamo Clara e Olga, due amiche anch’esse giovanissime, rispettivamente di sedici e quindici anni. Hanno due linee rosse dipinte su ciascuna guancia e nella voce altrettanta rabbia e altrettanta determinazione della studentessa con cui abbiamo parlato poco fa. «Abbiamo deciso di partecipare alla manifestazione perché la situazione delle donne in Italia è allarmante» afferma Clara, ricordando come femminicidi e violenze siano all’ordine del giorno. «Si tratta di fenomeni di cui spesso si parla e contro i quali ci si potrebbe quindi illudere di fare abbastanza, ma i dati dimostrano che non è così. Soprattutto, è importante ricordare le donne che vivono in condizioni particolarmente difficili, ad esempio tutte coloro che sono coinvolte in conflitti, costrette ad abbandonare le proprie case e che spesso non sanno come fare per mettere in salvo sé e i propri figli».
L’importanza di rendere lo sciopero femminista e transfemminista dell’8 marzo anche uno sciopero contro la guerra e il riarmo è stata ribadita dal movimento Non Una Di Meno.
Quest’ultimo in un comunicato stampa ha messo in evidenza come l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e il riarmo dei Paesi dell’UE per la risoluzione del conflitto abbiano reso necessario lottare collettivamente per il rovesciamento di una società neoliberista, patriarcale e razzista. La guerra, infatti, è “l’espressione più organizzata e intensa di un sistema basato sulla violenza strutturale”, lo stesso che ogni giorno produce discriminazioni e violenze nei confronti delle donne e non solo, lo stesso che rende possibile un’accoglienza diversificata per i profughi, a seconda del colore della pelle, della nazionalità di provenienza, della religione. Per questo motivo, uno degli striscioni più vistosi presenti alla manifestazione recava la scritta “Make school, not war”, e la marcia delle e dei partecipanti è stata scandita dallo slogan “Stop war – Нет войны”.
Le strade sono affollate da tantissimi e tantissime giovani, che hanno scelto di rinunciare ad un giorno di scuola per scendere in strada in un giorno di capitale importanza e per mandare un messaggio anche ai professori, alla scuola e, in grande, alla società: «Siamo stanche di una società che trascura le nostre parole, che silenzia le nostre voci – dice ancora Olga. La nostra generazione sembra più consapevole e desiderosa di un cambiamento, come dimostra il numero di giovani che hanno preso parte al corteo di questa mattina. Il punto però è che scendere in piazza non basta: bisogna essere in grado di mettere in atto un cambiamento anche nella propria vita quotidiana».
Questo aspetto è stato messo in evidenza anche da Marta Andreoletti, che ha partecipato al corteo in rappresentanza di UDU – Unione degli Universitari. «Certamente scendere in piazza ha il suo impatto e la sua importanza, ma le rivendicazioni devono essere portate avanti anche a livello pratico. Tra queste vi è l’aspetto legato alla riappropriazione delle strade, cioè al poterci e al doverci sentire sicure quando giriamo per le città, a qualsiasi ora del giorno e qualunque sia il nostro abbigliamento. Si devono poi combattere tutte quelle discriminazioni che agiscono dal punto di vista culturale e subconscio, sia a livello di schemi sociali che per quanto riguarda differenze salariali piuttosto che problemi nell’ambito medico, per l’esistenza di quelle che vengono definite malattie invisibili. Un aspetto che riguarda da vicino noi studentesse è poi quello relativo al fatto che alcune carriere sono ancora oggi considerate come riservate agli uomini (penso alle carriere scientifiche, come fisica, ingegneria etc.), così come vi sono carriere che invece continuano ad essere considerate come esclusivamente femminili. Bisognerebbe agire sia da un punto di vista legislativo che da un punto di vista culturale: riteniamo infatti che questi due binari debbano viaggiare insieme, affinché si possa produrre un reale cambiamento».
Il collettivo Fra(m)enti ci ricorda anche quanto sia fondamentale la condivisione di certi momenti e di certe lotte, che raggiungono il proprio scopo solo se portate avanti da una fiumana di persone in cammino per lo stesso obiettivo.
«Uno degli aspetti più belli dell’otto marzo è forse proprio la pluralità di voci, di lotte, di rivendicazioni politiche che confluiscono in questo giorno. Vogliamo un reddito di autodeterminazione, vogliamo una Palestina libera, vogliamo delle lotte che siano accessibili, vogliamo la fine della guerra in Ucraina e di tutte le cazzo di guerre, vogliamo l’abolizione del genere. Scegliere una singola parola da decostruire è… complesso. Forse però, essendoci ritrovat nelle strade a cantare a squarciagola proprio questo, diremmo: marea».
In questa marea si muovono voci vecchie e nuove, alcune che si sono appena avvicinate al femminismo e altre che invece sono attive già da anni. Casa delle donne, che opera a Milano da una decina di anni, ci parla dei cambiamenti avvenuti in seno al movimento femminista di recente: «I cambiamenti sono stati molteplici e determinanti. I più incisivi e permeanti sono stati l’avvento del movimento transfemminista Non una di meno – che si rifà all’omonimo movimento argentino e che ha rappresentato un punto di rottura con un femminismo classico e separatista –, la digitalizzazione del femminismo e la sua diffusione tramite i social che, nella sua accezione più positiva, ha permesso un coinvolgimento, partecipazione e condivisione ad ampissimo spettro. Alla Casa delle Donne nello specifico, ora convivono diverse forme di femminismo “attuale” come l’autocoscienza, mantenendo un rapporto articolato con Non una di meno e altre associazioni per creare una rete e fare fronte comune».
L’importanza del fare rete va ovviamente ben oltre il solo genere femminile e richiede la partecipazione di tutti e tutte. «Oggi siamo scese in piazza per lottare contro la violenza di genere e ci rincuora vedere che a questo corteo abbiano deciso di partecipare anche molti uomini» ci ha detto Michela, che, foulard fucsia al collo, abbiamo incontrato assieme ad altre donne appartenenti al movimento Non Una Di Meno. «Sono tante le motivazioni per cui abbiamo scelto di essere presenti oggi, tra cui quella della guerra. Non accettiamo poi di essere considerate inferiori rispetto agli uomini, di essere pagate di meno, di non poter raggiungere posizioni di vertice pur avendo le competenze per farlo. I giovani sembrano più coscienti di questa situazione, così come della questione ambientale. È bene ricordare che abbiamo una sola Terra, e questo dovrebbe essere tenuto presente sotto diversi punti di vista, dai rapporti interpersonali a quelli sociali».
Tra i tanti uomini presenti, ci imbattiamo in Ravi, che ha preso parte al corteo insieme a delle amiche e ha voluto raccontarci le ragioni della sua presenza in piazza. «Quello che vorrei è che in Italia si arrivasse finalmente alla parità di genere. Ho una sorella e penso spesso alla sua situazione: non vorrei mai che venisse trattata in modo diverso da me solo perché donna. Spero ad esempio che in futuro non vi sia più spazio per domande come “Sei sposata o fidanzata?”, “Hai intenzione di avere figli?”, durante un colloquio di lavoro». Tra le mani regge un cartellone rosa che riporta delle scritte su entrambi i lati: “It’s a dress, not a yes” e “Distruggi il patriarcato!”.
Interviste di Beatrice Balbinot, Chiara Del Corno, Chiara Di Brigida, Costanza Mazzucchelli, Angela Perego e Giulia Scolari.
Foto di Martina Pagani.