Del: 15 Marzo 2022 Di: Alessandra Pogliani Commenti: 1
15 marzo, un fiocco lilla contro i disturbi alimentari

In questi giorni drammatici, in cui le vicende globali stanno capovolgendo il nostro sentore di eterno presente, parlare d’altro sembra quasi inopportuno. Eppure, la storia da sempre corre su molteplici binari; alcuni viaggiano più in basso, in sordina, nel tempo frazionato della nostra intimità personale. Il 15 marzo è la giornata del fiocchetto lilla, dedicata alla lotta contro i DCA. Germogliati sul terreno fertile della pandemia, i disturbi del comportamento alimentare non solo sono in crescita; il vero problema è che di frequente, quando non se ne parla in termini sbrigativi o sprezzanti, lo si fa in una maniera che finisce per farsi complice della loro svalutazione. 

Anzitutto, l’analisi delle patologie di questo tipo è oggetto di una continua banalizzazione eziologica che è un insulto ai malati di DCA. La semplice vista di una modella dalle proporzioni neoclassiche, si sente dire, indurrebbe orde di pecoroni a nutrirsi di aria e lattuga pur di rientrare in un modello predefinito, salvo poi assaltare il frigorifero. È quella che, per non lasciare il patibolo deserto, viene bollata come diet culture.

Questa visione non solo è riduttiva e offensiva, visto che fa sembrare le persone affette da disordini alimentari un branco di capricciosi col puntiglio della taglia 38, prigionieri di un confronto estetico e impigliatisi da sé in un problema superfluo.

Il suo protagonismo è pure sintomo di un’ossessione corporea che irrora come un cancro le omelie di oggi: ridefinizione minuziosa dei canoni di bellezza, femminismi unilaterali che a parte il corpo della donna non trovano argomenti, patemi estetici che opprimono col loro coperchio la ricerca delle cause. Di fronte a certi discorsi verrebbe quasi da ridere, se a pagarne le conseguenze non fossero persone che convivono con un disturbo devastante

Un secondo schematismo che infesta la narrazione sui problemi alimentari riguarda i tratti con cui la lotta al malessere viene raffigurata: una catastrofe che ci porta via la serenità e sconvolge l’ordine proppiano delle nostre vicende finché, superate terribili peripezie, non ripristiniamo la staticità iniziale. Come se la vita fosse tutto quello che ti aspetta se riesci a scacciare la piovra che vizia il tuo rapporto col cibo. La famosa pizza cogli amici sbandierata quale trionfo sulla chimera del fear food, il calore di un convivio che la malattia preclude.

È più complicato ammettere che la ritualità del conteggio calorico spesso riempie lo spazio di un convivio che non c’è, oppure un senso di sovraffollata solitudine senza un trauma preciso a fare da spiegazione. Il metodico alternarsi di abbuffate e digiuni è un ciclo di pienezza effimera e catarsi depurative che consuma tanto quanto il nulla di fuori. Con la differenza che il primo sembra sempre preferibile. Non lo dice nessuno cosa vuol dire soffrire di depressione a quindici anni e annientarsi a fuoco basso, senza un motivo buono per scrollare via l’abbruttimento. Nel disordine alimentare trova il suo sfiatatoio un malessere talvolta spontaneo, che si sottrae alle certezze dei foglietti illustrativi. Accusare il settore della moda o i social network è più facile, perché a sostituire influencer e canone estetico si fa presto.

I mali endogeni, invece, ci fanno sentire impotenti. Privi di risposte.

A voler essere un po’ crudeli, si potrebbe poi osservare che la maggior parte degli spiriti-guida odierni ha un passato di anoressia, sventolato a mo’ di slogan pubblicitario nelle periodiche epifanie digitali. Come a dire: segui la mia pagina e sconfiggerai anche tu il demone della bilancia. Fossimo ancora più maligni, insinueremmo che passare il tempo a impiattare ricette alternandole a workout spesso non è sintomo di guarigione. Semmai è un modo per sublimare il proprio disturbo, camuffarlo da sportività o interesse gastronomico cosicché diventi socialmente accettabile. L’ossessione per il cibo cambia solo nella forma, e intanto il suo meccanismo vischioso riesce ancora a tagliarsi un varco da cui dominare il flusso dei pensieri. 

L’accettabilità sociale è ormai la prima misura etica del comportamento alimentare. Quanto più il mondo si imbroda in vanterie di inclusività, tanto più si preoccupa di ripassare il confine tra ciò che è giusto e ciò che finisce all’indice delle cose sbagliate, storte, perverse. Una semplice cena leggera durante le feste natalizie, evitare di comprare un pacco di merendine se si sa già che è un momento no e spariranno in ventiquattr’ore. Il minimo accenno di deviazione da quello che si ritiene il rapporto corretto col cibo deve essere oggetto di un fulmineo raddrizzamento ortopedico – altrimenti guai, facciamo passare un messaggio sbagliato e saremo schiavi della diet culture

Se poi i correttivi siano davvero all’insegna dell’equilibrio, chissà.

Abitiamo in una società talmente bulimica che alle modelle pelle e ossa sono contrapposte quelle obese, così maniacale nel suo tarlo corporeo che i contorni della sanità mentale ci sfuggono dalle mani. Pretendiamo con l’ossessione del malato cronico piani nutrizionali o terapie miracolose che ci guariscano senza lasciare una sola sbavatura del disturbo. La bulimia da cui cerchiamo di sgravarci riaffiora come un tradimento nel manicheismo che ci porta a ragionare per estremi, con la smania di redenzione definitiva dai nostri mali.

Cos’è la guarigione, aprire un profilo social per convincere qualcuno che la patologia è ormai un ricordo, e intanto permettere che la scritta recovered from anorexia ci definisca? Vivere nell’ansia di sporcare le giornate pulite con una ricaduta che intaccherebbe le nostre aspettative di salute senza vie di mezzo? C’è qualcosa che inquina alla radice il modo di immaginare la speranza

La quasi totalità dei pazienti si chiede se sia possibile suturare i punti di rottura, se dopo il diluvio tornerà tutto come prima. Forse, fino a un certo punto, . Avere un disturbo alimentare è come imparare a memoria l’alfabeto, introiettare un linguaggio giù fino al profondo della mente – guardo il dessert, saranno cinquecento calorie per cento grammi e la fetta ne peserà una quarantina, ho il mio conteggio involontario e valuto il da farsi. Posso infischiarmene dei lipidi oppure, qualora un pezzo di torta ingerito mi generasse turbe nevrotiche, mandare in malora la rettitudine comportamentale.

Se esiste un modo per svilire un’ossessione che ci assedia è darle un permesso di convivenza ai margini: farne un automatismo con scarso rilievo, pensare ad altro senza pretendere di estirparla.

Chissà che poi non sparisca da sé, lasciando qualche strascico annacquato negli anni. Dovesse rimanere tra i piedi, si continuerà la psicoterapia o si escogiteranno strategie di contenimento. L’incertezza circa il decorso non dà ottimismo, è vero, ma cautela dall’impazienza, dal vivere con la frustrazione di chi si aspetta per forza qualcosa in cambio.

C’è un nodo da sbrigliare alla radice nella nostra idea di speranza. La verità la gettiamo in pasto alle esigenze drammatiche dell’epilogo risolutivo: ci piace dare a chi legge una manciata di storie struggenti, un finale edulcorato che lenisca l’angoscia del limbo di qui. Ripetiamo che non siamo soli quando invece capita, e nei modi più ingiusti. Si pensa di poter eliminare la sofferenza voltandosi dall’altra parte. Tutti ci facciamo i conti, prima o poi: ci si impone con l’urgenza delle abbuffate, in un trauma, nel sottosuolo di un’infelicità asintomatica. Girarci attorno, non se ne parla: attraversarla è un passaggio obbligato. 

Dopo il diluvio non si torna mai come prima, in un certo senso. Non si diventa immuni al dolore e alle ricadute nemmeno, ma alla paura sì. Dev’essere questo, il nocciolo della sopravvivenza nonostante i DCA. Nonostante i conti che restano in sospeso. Sta tutto nel vizio di rimanere inchiodati a una terra che non ci dà risarcimenti o garanzie di giorni felici, eppure sembra sempre così feconda. In una bellissima poesia a versi sciolti, Cesare Pavese scriveva che la speranza è la vita e il nulla. Ecco cosa rimane, nel caos primigenio che lascia dietro di sé un disturbo alimentare: il dono della vista. Sperare stanca, a volte. Al contrario, pare che se nasci o rinasci con uno strapiombo interiore poi ti porti appresso quella sensibilità ingombrante fino alla fine: non vorresti mai fare a cambio. E dire che il prezzo è altissimo. 

Alessandra Pogliani
Ostile al disordine e col cruccio di venire a capo dell’anarchia del mondo, per contrappasso nella vita studio storia.

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