Radici racconta fatti, personaggi e umori della storia della Prima Repubblica italiana, dal 1946 al 1994. A questo link è possibile trovare gli articoli precedenti della rubrica.
All’indomani del crollo del muro di Berlino, lo studioso Francis Fukuyama parlò di fine della storia. Come dargli torto? I programmi scolastici si fermano spesso al 1989, mentre la guerra del Kosovo o i conflitti per la terra in Africa sono vicende di altri mondi, cose che ci toccano appena. Si ha quasi l’impressione di vivere immersi in un tempo ridondante come il flusso informativo della CNN: una pioggia continua di fatti di cui capiamo ben poco, un impasto di notiziari senza fine in cui accade di tutto eppure sotto il sole non sembra comparire mai nulla di nuovo.
Di recente, invece, il vicino dramma ucraino e il vociare circa una rediviva Unione Sovietica hanno fatto venire il dubbio che forse, il signor Fukuyama, qualche torto ce l’aveva. Frugando tra le vaghe reminiscenze di un’Urss studiata sui bigini, poi, può pure sorgere qualche necessità di ripasso. Cosa si diceva, nell’Italia della Prima Repubblica, a proposito della politica aggressiva di Mosca? L’ala protettiva dell’Unione sovietica, abnorme creatura non esattamente nota per la sua benevolenza, non era un po’ scomoda per il Partito comunista italiano?
Pur nell’impossibilità di riassumere tutto quanto l’intrico, c’è un anno su cui vale la pena soffermarsi.
In un recente saggio, Luciano Canfora ha definito il 1956 una data spartiacque del Novecento. Un anno-shock che colpì tutti, militanti o simpatizzanti di qualunque casacca politica: il terremoto interno all’Unione sovietica a partire dal rapporto Chruščëv, i fatti di Ungheria e Polonia, la crisi di Suez che segnò una tacca nel dipanarsi della storia coloniale. Di questi avvenimenti, alcuni avrebbero influenzato non solo il futuro del polo orientale, ma anche quella del partito che, in Italia, era la sua espressione.
Nel febbraio 1956, in vista del XX Congresso del Partito comunista, il segretario Nikita Chruščëv preparò un dettagliato rapporto in cui venivano a galla i molteplici crimini compiuti da Stalin, dai processi-farsa alle esecuzioni. La pubblica denuncia, divulgata dapprima all’interno dello Stato, ne scavalcò presto i confini e a metà marzo finì sul New York Times, facendo clamore in tutto il mondo.
In Italia, il Pci reagì cercando di minimizzare l’impatto delle rivelazioni. A inizio estate, sulla rivista Nuovi Argomenti, uscì un’intervista al segretario Togliatti sul rapporto Chruščëv. Infilando una dietro l’altra affermazioni piuttosto ambigue, Togliatti criticò i dirigenti sovietici per essersi limitati a denunciare i crimini di Stalin, raggirando uno scomodo giudizio storico; il sistema politico dell’Urss, a suo dire, rimaneva tuttavia superiore a quello delle democrazie parlamentari occidentali – tutt’al più, sul piano internazionale, sarebbe stato un bene accrescere il policentrismo, rendendo i singoli partiti comunisti più autonomi.
Restava senza risposta la domanda di una giovane attivista, intervistata da Edio Vallini: «e loro dov’erano, quando Stalin commetteva tutti quegli errori che dicono abbia commesso?». L’interrogativo, che alludeva ai dirigenti sovietici, aveva più di una applicazione. Negli anni trenta, Palmiro Togliatti era stato vice-segretario del Comintern. Tanto per usare un eufemismo, è improbabile che fosse all’oscuro di purghe, culti della personalità e manovre di annientamento delle opposizioni.
Le rivelazioni sovietiche, insieme al processo di timida riforma e destalinizzazione che investiva il gigante rosso, aprirono nei Paesi del blocco comunista qualche speranza di allentare il doppio nodo che li allacciava a Mosca.
In Polonia, le manifestazioni contro gli insuccessi dell’economia pianificata culminarono con lo sciopero di Poznań del 25 giugno, al grido di “basta coi bolscevichi!”. L’agitazione fu repressa subito, con un bilancio di una quarantina di morti e centinaia di feriti. Dal balcone italiano, la sinistra guardava alle vicende con pareri contrastanti. Giuseppe Di Vittorio, presidente della Cgil, espresse la sua solidarietà per gli operai insorti. Al contrario, il Partito comunista rimaneva ufficialmente allineato con Mosca: in un editoriale sull’Unità, ripubblicato anche dalla Pravda, Togliatti scrisse di nemici polacchi, provocatori, criminali.
L’autunno avrebbe riservato turbolenze ancora peggiori. In Ungheria, l’insofferenza verso il giogo sovietico aveva trovato espressione nella nomina all’esecutivo di Imre Nagy, punto di riferimento di una popolazione che richiedeva una svolta democratica nonché avversario del leader comunista Ernő Gerő. Di fronte alla decisione di tornare a elezioni libere, uscire dal Patto di Varsavia e chiedere alle Nazioni Unite il riconoscimento di uno status di neutralità, la reazione di Mosca fu durissima. Nel novembre 1956 i carri armati entrarono a Budapest, Nagy fu mandato a morte e ogni prospettiva riformatrice soffocata nel sangue.
I fatti di Ungheria non fecero che accrescere le divisioni interne alla sinistra. Da un lato, il Partito comunista parlò di controrivoluzione e “terrore bianco” annientati a buon diritto. Dall’altro i socialisti, salvo la minoranza “carrista”, condannarono insieme alla Cgil l’ingerenza anti-democratica delle truppe straniere negli affari di un altro Stato.
Il dissenso si concretizzò anche in una frattura interna al comunismo italiano. Decine di intellettuali comunisti come Natalino Sapegno, Carlo Muscetta e Renzo de Felice sottoscrissero un appello pubblico, il cosiddetto “Manifesto dei 101”, per prendere le distanze dal vertice togliattiano, fermo nel ribadire che “si sta con la propria parte anche quando questa sbaglia”.
Sorvolando sulla discutibilità di una strategia tanto devota nelle alleanze quanto miope, l’atteggiamento del Pci di fronte ai fatti del 1956 avrebbe avuto conseguenze molto gravi.
Anzitutto, se fu assunto con l’intento di salvaguardare l’unità partitica, costò parecchio in termini di adesioni. In pochi mesi il Partito comunista perse oltre trecentomila tesserati, in un vero e proprio esodo di intellettuali, e scese sotto i due milioni di iscritti, soglia mai più superata. Al calo, ribadito dalle elezioni amministrative tenutesi lo stesso anno, faceva da contraltare una crescente autonomia socialista. Il partito di Nenni, sempre più lontano dalla soggezione al Pci, vagheggiava una riunificazione cogli altri socialisti, quelli del Psdi di Saragat, nella prospettiva di un partito ormai in grado di reggersi sulle proprie gambe.
La prova dell’anno spartiacque, a un primo impatto un vero disastro per il Pci, fu tuttavia cruciale, perché diede l’impulso ad alcune trasformazioni che avrebbero interessato il partito negli anni a venire. L’accettazione acritica del paradigma sovietico, complici gli eventi internazionali, era destinata ad affievolirsi, rendendo il partito italiano sempre meno un avamposto occidentale della superpotenza rossa. In parallelo, era stata avviata una rigenerazione nell’impianto organizzativo. La generazione dei “satrapi”, anziani dirigenti locali, fu sostituita da uomini più giovani, con l’incarico di rimanere fedeli alla direzione durante la crisi del 1956. Questa dicotomia tra centralizzazione e aperture al mondo esterno sarebbe stata il principale elemento di tensione nella storia successiva del partito.
Bibliografia:
Luciano Canfora, 1956. L’anno spartiacque, Palermo 2016
Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Torino 1989