Usciva lo scorso inverno nelle sale cinematografiche l’ultima produzione di Sorrentino, È stata la mano di Dio, rivelandosi sin da subito un film spartiacque se confrontato con la precedente tradizione permeante il catalogo del regista campano, già premio Oscar nel 2014 con La Grande Bellezza.
È stata la mano di Dio è, anzitutto, un film dichiaratamente autobiografico. Difatti, la storia che narra tra le sue righe è similare a quella della realtà che Paolo Sorrentino conobbe nella sua gioventù. Un film che fa prima sorridere, poi ridere di gusto e successivamente commuovere, in un saliscendi emotivo reso possibile grazie all’incredibile risonanza empatica che esso stesso è capace di emanare in ogni suo tratteggio.
Il film è chiaramente scindibile in due sezioni distinte.
Nella sua prima ‘parte’, lo spettatore viene immediatamente catapultato con irruzione in un affresco familiare colorato da innumerevoli personalità che, seppur tra loro diversificate, nel complesso risultano funzionali in invidiabile organicità, laddove le luci e le ombre di ciascuna di esse non diventano altro che un gioco su cui è sempre possibile scherzare con salvifica ironia. I personaggi assumono contorni quasi caricaturali, vicini a delle maschere della grottesca e stravagante commedia dell’arte.
Il protagonista è il diciassettenne Fabietto Schisa, nonché alter ego del regista. Viene presentato come un ragazzo pervaso da un perenne senso di inadeguatezza, cauto e riflessivo, sempre proteso all’osservazione quieta e ponderante, che spesso, coinvolgendo la fisicità, lo lascia inesorabilmente a bocca aperta. Lo sfondo della sua adolescenza è una Napoli degli anni Ottanta, prossima all’estate, la stagione della serenità disobbligata.
Ma l’ammirevole e affascinante equilibrio è improvvisamente sradicato dal dramma che sbaraglia il passato di Sorrentino, trasposto poi nel film. I genitori di Fabietto muoiono, in circostanze inconcepibili nella tagliente verità che ormeggiano d’un tratto al suo cospetto, lancinante di un dolore imprevisto, indigeribile a prima istanza.
In questo modo si scioglie al pubblico il secondo segmento del film, allentato in ognuna di quelle morse che prima invece abbracciavano stretto il protagonista, all’interno di una indubitabile tana domestica. E adesso, senza asilo e in preda al più ostico sconforto, Fabietto si addentra in uno scenario partenopeo labirintico per la lacuna che serba, sbiadito e desolato, nel quale il trauma è scongiuramento del mito che prima era garanzia trionfante di evasione dal ‘reo tempo’.
Il confine tra realtà e finzione è ormai nitido, e persino il tanto venerato goleador Diego Maradona diviene solo un margine di sogno perseverante tra il livido cemento degli spalti di uno stadio spopolato.
Costretto a progettare improvvisamente il proprio futuro e privo di bussola genitoriale, Fabietto lascia che i suoi sguardi si consegnino allora al mondo circostante, e la sua tensione all’esplorazione lo rende non più solamente un silenzioso apprendista del vivere, appartato nei retroscena, ma lo costringe al palcoscenico della realtà. Una realtà che, per quanto definita da egli stesso come scadente, ha bisogno di essere studiata in ogni sua sfumatura, senza pregiudizio.
E così monta in sella al motorino di un contrabbandiere, e con lo stesso spirito di iniziativa si scaraventa addosso alla brama di lavorare un giorno con la macchina da presa. È “un sogno pazzo”, come lui stesso lo battezza, ma l’epilogo del film dimostra quanto l’utopia, se alimentata da un maturo senso del reale, sia atta a concretizzarsi, al costo di tradire momentaneamente una primigenia sensazione di appartenenza. In una delle scene finali si dischiude uno stimolante dialogo che Fabietto intrattiene con Capuano, ma che simbolicamente rimanderebbe a un catartico soliloquio.
«Non ti disunire mai, non te lo puoi permettere!» grida un etereo Capuano, dopo avergli ricordato che i suoi genitori non lo hanno lasciato solo, bensì lo hanno abbandonato, liquidando definitivamente quella nascosta ingenuità coltivata dalla fallace prospettiva di un loro futuro ritorno; la solitudine è una condanna unanime, è il tempo per riconoscerla che differisce da persona a persona. La follia di zia Patrizia è esito esasperato di una inappagata sete di senso, che nel fratello Marchino si manifesta piuttosto in forma di sbrigativa arrendevolezza.
Fabietto invece si disunisce. Precocemente orfano, rinuncia a Napoli per Roma, abbatte il fanciullo in lui esiliandosi in conscia autonomia, onde evitare di rimanere ancorato al ricordo di una esistenza ormai tragicamente impalpabile. Così Sorrentino coglie l’occasione per impartire una lezione preziosa: alle volte è necessario disgregarsi per poi ritrovare sé stessi, uscire disorientati per tornare convalidati, poiché è solo tramite l’esperienza dell’altro fuori da sé che è possibile costruire la consapevolezza della propria persona.
Cristallizzarsi nei confini di un microcosmo che nella sua consuetudine rincuora non porta ad alcuna guarigione dell’animo, che per essere veramente medicato necessita di uscire allo scoperto e sottoporsi all’arido vero. Il disincanto è come un prezzo da pagare per percorrere una maratona formativa che attraversa il desistere, il resistere, l’esistere, e infine agguanta il vivere. Il vittimismo della realtà scadente muta così in un titanico affronto di essa, a muso duro.
È stata la mano di Dio non è una semplice e mera narrazione biografica; è un’opera audace di agnizione dell’afflizione personale, al fine di devolverla in misura universale a un pubblico estraneo.
Si tratta di una stretta unificante che consola ma non blocca, anzi, incita al movimento, al transito della vita nonostante le intemperie e gli accidenti, a momenti celebrandoli. Fabietto diventa Fabio e fa del suo nostalgico sentimento di carenza una pregiata veste da indossare con energico ardimento, nonché fonte di estrosa aspirazione professionale. Alla fine dei conti, una vita priva di ostacoli mai potrebbe permettere di distinguere autenticamente il volto della felicità, della gratitudine, della realizzazione, nei loro temporanei ma genuini guizzi.
Ne La grande bellezza, Sorrentino disegna il profilo adulto e arreso della disillusione nichilista, dell’inettitudine viziosa e dell’edonismo vacuo, mondano e limitato allo sfarzo delle cornici, povero di sostanza e degenerativo nell’estrema percezione dell’ineluttabilità esistenziale, che conduce al guardarsi vivere con passività inquietante. Qui, d’altro canto, Sorrentino regala un intimo costrutto che straripa una focosa linfa di passioni trepidanti, e l’età protagonista ne è premurosa interprete. Un vero e proprio promemoria: nell’insensatezza del tutto, perdura la preziosa magia delle piccole cose.
Un film che probabilmente meritava la statuetta, non solo la candidatura agli Oscar 2022, ma poco importa. Il proposito primo e ultimo di questa pellicola non è in fondo la gloria spettacolare; la sua più alta commissione brontola nell‘interiorità di ogni animo uditore, è un film che proviene dal cuore, non dalla mente come La grande bellezza.
È una dedica affettuosa, umana e solidale, per chiunque, almeno una volta nella vita, abbia temuto le conseguenze di una disunione.
È un film che decanta la malinconia, la culla sul fondo delle onde marine di una Napoli che tutela la impetuosa franchezza di alcune indoli, senza giri e senza fronzoli. È stata la mano di Dio è un messaggio ospitale che sublima il dolore, inneggia alla rinascita audace e di frequente ardua nel suo compiersi, accantona la speranza fiacca e stazionaria del rammarico, ma non abbandona mai l’ambizione e la forza ispiratrice del ricordo, come in una sorta di riscatto contro il male.
Il film è un tour de force che ha fiducia nel travaglio della vita umana, lo esorcizza e lo romanza a fin di bene, per ricordare ad ognuno di noi una prestigiosa nota di esistenzialismo: la mediocrità è nobile noia che stimola alla rifioritura. Nell’infamia del limite, germoglia una rete di corrispondenze artistiche capaci di trasformare il lutto della disillusione in monito verso sensazionali rivalse. In questo altruista naufragio emozionale, gli occhi divengono senza fatica lucidi.