Del: 23 Aprile 2022 Di: Carlo Codini Commenti: 0
Massacro di Napalpí. Riaperto il cold case argentino

Conosciamo tutti la definizione di cold case e sappiamo anche quanto sia non son solo improbabile, ma anche complesso riaprire un caso giudiziario a distanza di anni, tanti anni. E non necessariamente aiuta il fatto che, supponiamo, si stia parlando di una strage, anche di proporzioni tragiche. Il massacro di Katyn’ dell’aprile del 1940, che ha colpito 22mila uomini uccisi e gettati in fosse comuni dai militari sovietici del NKVD, ad esempio fu “scoperto” solo nel 1943 e rimase “senza colpevoli” per anni, tra insabbiamenti, chiusure, riaperture del caso e reciproche accuse tra URSS e Germania. Un burrascoso mare di incertezze che mai ci si sarebbe aspettati viste le proporzioni dell’evento.

In Argentina, dopo quasi un secolo, la giustizia ha scelto di riaprire i fascicoli (ammesso ci sia qualcosa che possa essere chiamato tale) riguardanti il tanto noto quanto sempre rimasto impunito massacro di Napalpí.

Tra i duecento e i trecento (ma alcune fonti parlano addirittura di settecento) indigeni di etnia Qom e Moqoit vennero massacrati il 19 luglio 1924, rei di aver partecipato a moti popolari nella regione del Chaco, una delle più vaste del Sud America (che va dall’Argentina al Paraguay fino alla Bolivia). Secondo le testimonianze, a ordinare la strage, definita oggi a gran voce crimine contro l’umanità, fu Fernando Centeno, allora governatore del Chaco argentino. Più di un centinaio di coloni tra poliziotti, contadini e allevatori bianchi, armati di fucili e machete, aggredirono gli indigeni, donne e bambini compresi. Chi non morì subito fu finito a colpi d’arma bianca nella boscaglia.

Oggi l’apertura di un processo, autorizzato già nel 2021 dal giudice federale Zunilda Niremperger, avrà probabilmente solo un valore simbolico e non conseguenze penali, perché gli esecutori materiali e anche i mandanti sono ormai morti. Ma conserva un forte valore per i numerosi parenti e discendenti degli indigeni, tra cui l’unica diretta testimone sopravvissuta, Rosa Grilo, ultracentenaria. In una recente intervista rilasciata ai microfoni di El Paìs ha dichiarato che furono le parole del nonno a salvarla quel giorno, quando le disse di non andare nel luogo dove un aereo aveva sganciato caramelle e generi alimentari (escamotage utilizzato per attirare gli indigeni ribelli e circondarli). È poi un segno importante per tutti i popoli indigeni del continente vittima di secolari vessazioni.

L’esito del processo, con le sue testimonianze e raccolte di prove dopo quasi sei anni di indagini preliminari, potrebbe dare il colpo di grazia a quella che allora e in parte ancora oggi è la versione ufficiale dei fatti sostenuta dallo Stato argentino. E cioè che il massacro di Napalpì non sia stato altro che l’esito di uno scontro tra tribù rivali.

Ma quali furono le cause della rivolta e cosa avvenne subito dopo la strage? Secondo le testimonianze, sembra che a causare un’esplosione di rabbia nelle piantagioni di cotone fu una riduzione dei compensi, già infimi ed erogati sotto forma di vestiti e buoni alimentari, oltre a un aumento del 15% della tassazione. Più che una vera e propria rivolta si trattò di uno sciopero che sfociò nell’uccisione di alcuni animali e nel danneggiamento dei raccolti, per portare all’attenzione del Governo l’insostenibilità della situazione. Il pretesto per la strage fu invece l’assassinio di un colono, probabilmente per vendetta dopo l’uccisione di uno sciamano a opera della polizia, in un clima di crescente tensione.

Subito dopo il massacro di Napalpì, nonostante i tentativi di insabbiamento, tra cui la distruzione di alcuni cadaveri per mezzo di roghi, e la persecuzione dei testimoni, il caso ebbe comunque risonanza in Argentina.

Fu intrapreso un processo che vide però tutti prosciolti nel giro di breve tempo. Fernando Centeno, che era riuscito a ottenere un giudice “amico”, rimase al potere con il tacito consenso dell’allora presidente Marcelo Torcuato de Alvear e la procedura venne infine archiviata. Solo anni di battaglie e la determinazione dei discendenti e degli appartenenti ai popoli Qom e ai Moqoit, supportati da storici e da attivisti, hanno fatto si che la vicenda non finisse nel dimenticatoio. E negli ultimi anni i segnali sono stati positivi. Dopo una battaglia legale intrapresa nel 2004, nel 2018, il governo del Chaco ha presentato pubbliche scuse all’ultima sopravvissuta e ha chiesto e ottenuto di partecipare attivamente alle indagini.

A prescindere dagli esiti del processo, la vicenda rimarrà come una pietra miliare della lotta per i diritti dei popoli indigeni, siano essi Sudamericani, Nordamericani o di altre parti della terra. Un incentivo a lottare per la verità sugli infiniti omicidi commessi e rimasti impuniti, ancora archiviati in qualche sotterraneo o polveroso deposito in attesa di essere ripresi in mano. In occasione del 97° anniversario per la commemorazione del massacro, è stato realizzato sul sito un memoriale, affinché sia impresso nella pietra quanto i pensieri e le parole non hanno mai smesso di gridare.

Carlo Codini
Nato nel 2000, sono uno studente di lettere. Appassionato anche di storia e filosofia, non mi nego mai letture e approfondimenti in tali ambiti, convinto che la varietà sia ricchezza, sempre.

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