Se questo è un uomo Primo Levi lo ha scritto in fretta, con l’ansia di raccontare e i capitoli che gli crescevano tra le mani come un termitaio. Un libro fatale, avrebbe detto Umberto Saba. I libri fatali, si sa, lo sono pure per gli autori, non solo per chi li legge: consacrano un mito, in questo caso un mestiere di testimone, e poi tocca fare i conti con le aspettative della massa ignota per cui gli scrittori, che hanno un modo tutto loro di intendere la dimensione sociale, vivono.
Quando a Levi venne l’idea di pubblicare una raccolta di racconti fantascientifici, infatti, l’editore si mise subito sul chi va là: non c’era troppo da scherzare, il pubblico rischiava di restare deluso dalla svolta farsesca di un autore così serio. Seguendo le direttive di Einaudi, alla fine, le Storie naturali uscirono nel 1966 con lo pseudonimo di Damiano Malabaila. Il nome, nella sua scelta casuale (il soggetto in questione era l’esercente di una bottega a cui Levi passava davanti per andare al lavoro), era quello che i nostri avi avrebbero definito un nomen omen, una sorta di presagio. Malabaila significa cattiva balia, chiarì l’autore in un’intervista:
Mi pare che da molti dei miei racconti spiri un vago odore di latte girato a male, di nutrimento che non è più tale, insomma di sofisticazione, di contaminazione e malefizio.
Nelle Storie naturali non ci sono scenari apocalittici come quelli che Andrea Delogu ci serve crudi nel suo ultimo romanzo Contrappasso: là si muore all’istante, della stessa morte di ogni animale che si uccide.
I racconti di Levi non sono una narrativa che trafigge nell’immediato. Piuttosto, istillano un germe che erode a poco a poco la normalità di tanti gesti e pensieri, finché di naturale, ai nostri occhi, resta ben poco. In una parola, pungono. E il titolo è un’antifrasi. Si legge di una quotidianità distorta a partire dai discorsi persuasivi del bizzarro Mr. Simpson, agente di commercio in Italia per conto di un’azienda americana negli anni del boom. Il libro è una serie di fantasie in formato breve che mischiano satira politica, esperimenti perversi e strani congegni in vendita, come i misuratori di bellezza e le macchine da scrivere che se la cavano anche senza gli scrittori. La crudeltà e lo stile sbrigativo tipici della science fiction americana, indovinabili nella parlata senza fronzoli della Delogu, in Levi lasciano spazio a quella che Cesare Cases ha definito una zona tutta italiana di fantascienza: la malinconia umanistica si esprime con un lessico meno immediato, e al posto della distopia violenta c’è un’ambientazione casalinga ma inquietante.
Un mondo in apparenza dritto che però, se lo si guarda un attimo ancora, stride.
Malabaila, una nutrice che avvelena chi le si attacca al seno. «A questo proposito», spiegava Levi, «vorrei ricordare che per tutti noi superstiti il lager, nel suo aspetto più offensivo e imprevisto, era apparso proprio questo, un mondo alla rovescia dove fair is foul and foul is fair, i professori lavorano di pala, gli assassini sono capisquadra, e nell’ospedale si uccide».
Nel 1971 uscì Vizio di forma, l’altra opera fantascientifica leviana. La raccolta è una cornucopia di citazioni colte e tematiche per niente passate di moda: dalla tecnologia che invalida i rapporti sociali ai sistemi impersonali di carità a distanza, dalla mania di catalogazione all’inquinamento idrico. Rispetto alle Storie naturali il taglio è più ecologico, ma alla base c’è lo stesso bisogno di dare corpo a un’intuizione; nella quarta di copertina si legge:
La percezione di una smagliatura nel mondo in cui viviamo, di una falla piccola o grossa, di un vizio di forma che vanifica uno o un altro aspetto della nostra civiltà o del nostro universo morale.
Il ponte con l’universo concentrazionario, a dispetto di pseudonimi e stupore del pubblico, c’è eccome: il lager è stato il peggiore dei vizi, il più grande pervertimento generato dal sonno della ragione, da un male ‘sciocco’ scambiato per il bene. Un mondo a testa in giù in cui la morale è stata incrinata con una facilità disarmante, e tante persone qualunque si sono convinte che esistano stermini giustificabili. Nella zona grigia che ci accomuna, di cui Levi parla soprattutto ne I sommersi e i salvati, l’umanità è un costrutto precario, teso in equilibrio fragile al di sopra della bestia.
Restare uomini è più dura di quanto si pensi. Nessuno può chiamarsi fuori dicendosi antifascista, allergico ai regimi totalitari, a Vladimir Putin: sono facilonerie.
Si parli piuttosto dei totalitarismi narcotizzanti sui social network, che passano il cloroformio sul senso critico in un delirio imitativo per cui la diversità (apparente) è il nuovo modello a cui omologarsi. Del paternalismo distratto con cui si fa beneficenza solo agli ultimi – tanto non minacceranno mai il predominio socio-economico dei loro benefattori. O della meglio gioventù liceale, puntualmente iscritta al classico da genitori illustri, che fa del parentado e della zona di residenza un motivo di superiorità genetica sugli altri – sia mai che ci si contamini salutando la plebaglia per strada. Chissà se questo concentrato di umanità esclusiva giocherà alla manifestazione, lunedì 25 aprile. Se incontreranno mai un Levi che non parla di kapò, ma dei bulli a scuola.
Passando in rassegna il marciume banale che si respira ogni giorno, non sarà poi sorprendente scoprire che lo scrittore-testimone per antonomasia è stato anche autore di science fiction, racconti-scherzo che però rimangono sempre freddi, distaccati, trappole morali di serissima attualità. I testi sono ricchissimi. Ci si trova il rapporto tra uomo e macchina declinato nelle sue contraddizioni, dalla leggenda del Golem fino al degenero di una rete telefonica impazzita che sovrasta ogni dialogo. Auschwitz affiora più nitido in alcuni racconti, quelli dedicati alle sperimentazioni atroci del dottor Leeb.
Dall’altro lato, il laboratorio ritorna come paradigma di un genere umano in cerca nonostante la vanità del tutto, quasi a confondere le formule bibliche del Qoelet con quelle di medicina – non è forse la ricerca dell’ordine, orizzonte mobile e sfuggente di ogni discorso scientifico, la forma più inclusiva di speranza? Del resto Primo Levi, spaccato in due nella sua identità di chimico e voce narrante, in molte occasioni ha ribadito che proprio gli uomini di scienza avranno la responsabilità di frenare il cammino ormai regressivo verso Occidente.
Letti a posteriori nel 2022, i racconti leviani rivelano un profilo sinistramente predittivo.
Difficile non associare il signor Simpson ai suggerimenti personalizzati di acquisto propinatici dalle filter bubbles, o le pagine di Ottima è l’acqua all’agonia del pianeta bistrattato da un Prometeo tracotante che è già Epimeteo. La fantascienza, del resto, è un ritorno alla realtà: si parla del mondo trasfigurandolo in mondi altri, si segue Astolfo nel suo viaggio sulla Luna solo per il gusto di scrutare indietro. Lo straniamento cognitivo che provoca nel lettore diventa un esame di coscienza prima individuale e poi comune: alle città invisibili si guarda per trovare una via nell’inferno dei viventi. Chi l’ha detto che la filologia è solo un vezzo citazionale?
Un racconto può piacere o no, e di un romanzo si può commentare lo stile, la consistenza della trama, la caratterizzazione dei personaggi. Eppure, quando si incappa in un certo tipo di libri, sembrano tutte disquisizioni pleonastiche. Levi è pacato e parla forte senza scomporsi, strizzando l’occhio a Rabelais e alle reminiscenze classiche. La voce della Delogu invece è ruvida, di una modernità aggressiva, e ti sputa in faccia il suo mondo capovolto senza veli sulle parolacce. Dai loro antipodi letterari, chiamano in causa allo stesso modo. Incalzano, non danno tregua, parlano al plurale. Cosa per niente scontata, nel mare magnum di litanie egocentriche che tolleriamo in libreria tra le novità del mese: in tanta foga affabulatoria non si trova una denuncia che sia universale.
Forse ci sarà bisogno di riscoprire Levi, forse pure di una scrittrice coraggiosa che faccia il processo a tutti con un affresco senza pietà. Nel dubbio, lunga vita alla fantascienza e a chi tiene a galla la più nobile tra le forme di scrittura: farsi testimone di un’epoca.