
Sacchi neri calati sulla testa, le mani legate dietro la schiena, in giacca e slip. Su gambe e fondoschiena macchie di “sangue” finto.
Questa la protesta di alcune donne di fronte all’ambasciata russa a Tallinn, Estonia, tenutasi lo scorso 13 aprile.
Esplicita la denuncia: come in ogni altro conflitto, anche in Ucraina lo stupro diventa arma spietata e umiliante, guerra nella guerra.
Lo sappiamo tutti perfettamente: la guerra scoppia spesso in alto, tra élite politiche, capi di Stato, per interessi che navigano metri e metri sopra la nostra testa. Le conseguenze, inevitabilmente, si riversano giù, travolgono la popolazione civile. Nella storia questo è diventato sempre più vero: avanzamento tecnologico, armi chimiche e bombardamenti sui centri abitati, tattiche che puntano a devastare i popoli, abbatterne lo spirito.
Ma c’è un’arma, vecchia come il mondo eppure sempre nuova nella sua violenza inesplicabile, immortale: lo stupro.
Praticato massicciamente durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale e ancor più recentemente, nei conflitti in ex Jugoslavia (1991-2001), Ruanda (1993-94), Sierra Leone (1991-2002), Liberia (1989-2003), Repubblica Democratica del Congo (dove il conflitto si è ufficialmente concluso nel 2003 ma gli stupri continuano a flagellare la popolazione femminile), Colombia (dove nonostante gli accordi di pace del 2016, la guerriglia continua).
E ancora, il rapporto sulla violenza sessuale nelle situazioni di conflitto, relativo al 2017, ha preso in esame (oltre ai già citati Repubblica democratica del Congo e Colombia) anche Afghanistan, Repubblica Centrafricana, Libia, Mali, Myanmar, Somalia, Sud Sudan, Siria, Yemen e Iraq. Proprio in Iraq, dal 2014, i gruppi terroristici (in particolare Daesh) hanno stuprato e sequestrato migliaia di donne e ragazze della minoranza Yazidi, per farne delle schiave sessuali.
Dunque in Ucraina come ovunque, nel 2022 come sempre: stupro come manifestazione di forza, umiliazione di individui e comunità. Frutto di una mentalità patriarcale, che vuole colpire nella dignità donne e uomini in egual misura, schiacciare le une con la forza della violazione, gli altri con il messaggio del vincitore e conquistatore non solo di una terra ma di tutti i suoi abitanti, delle loro vite e del loro destino. Un messaggio radicato negli stereotipi di genere, che in sostanza dice “siamo noi ad avere il potere, mentre voi non siete in grado di difendere le vostre donne, i vostri bambini, e per questo non siete veri uomini”.
Lo stupro non è solo atto individuale, brutale e ingiustificabile sfogo degli istinti sessuali di un soldato in astinenza; è una pratica sistematica, volta ad annientare e dominare, nonché ad attuare la pulizia etnica “dall’interno”. Saranno infatti le gravidanze indesiderate, frutto della violenza, a “contaminare” l’etnia del nemico, ribadendo la propria superiorità, facendo del miracolo della nascita l’arma più crudele di tutte.
Come sempre però la realtà non è tutta bianca o nera: mentre si rincorrono le notizie degli stupri commessi in Ucraina dai militari russi, giungono all’ONU analoghe denunce mosse contro membri delle forze ucraine. La guerra, come ogni altra grande catastrofe umana o naturale, altera l’ordine delle cose, anzi è in sé disordine, annullamento di ogni convenzione sociale, di ogni legge: nessuno può più essere chiamato a rispondere dei propri reati, il concetto stesso di reato sembra cessare di esistere. In aggiunta a ciò il conflitto richiama estremisti di ogni fazione, cani sciolti, violenti alla ricerca di una valvola di sfogo. Il pericolo si insidia dietro ogni angolo, anche sotto una divisa amica.
Ad aggiungere dolore a dolore, la battaglia di queste donne devastate spesso non finisce, nemmeno in pace.
Proprio loro, che dovrebbero essere accolte, curate fisicamente e ancor più psicologicamente, supportate nel loro percorso di guarigione e nelle loro scelte, si trovano a dover combattere in alcuni Paesi anche contro legislazioni restrittive sull’aborto.
Come in Polonia, principale Paese di accoglienza dei profughi, dove a seguito dell’entrata in vigore, il 27 gennaio 2021, di una sentenza della Corte Costituzionale, è oggi consentito abortire solo in caso di stupro, incesto e rischio alla salute della donna nonché previo accertamento da parte di un magistrato. E come si potrebbero del resto aprire centinaia di inchieste per stupro, a danno di soldati non identificati?
Diciamolo, una volta e per tutte: sì, anche una gravidanza indesiderata è violenza. Violenza prolungata, ripetuta, violenza che non ha fine, si fa carne. Violenza che si insidia nel corpo di una donna. E se l’aborto non è e non deve essere l’unica opzione possibile, se alcune donne scelgono di portare avanti la propria gravidanza, di amare un figlio indipendentemente da quello che è stato il suo concepimento, con tutte le difficoltà del caso, la libertà di scelta deve essere comunque e sempre garantita. L’aborto non è un diritto contrattabile.
Infine, tra le molteplici facce della medaglia ce n’è un’altra ancora: la violenza sessuale praticata contro gli uomini, i nemici catturati, insieme come forma di tortura e di abuso morale, psicologico, umiliazione di una stereotipa “mascolinità” che andrebbe difesa ad ogni costo (quella stessa mascolinità sfoggiata dagli aggressori proprio attraverso lo stupro o altre sevizie a carattere sessuale).
Di nuovo, non si tratta di episodi sporadici (il che comunque non ne ridurrebbe la gravità), bensì di un fenomeno costante nella storia, in ogni luogo e tempo, ovunque la guerra imperversi. Se tutte le violenze sessuali, contro ogni essere umano, generano una spirale di vergogna e spesso silenzio, gli abusi a danno di uomini vengono ancor più trattati come tabù: tacciono le vittime, ma tacciono anche i media, i governi, i diritti e la legge.
Questo è quanto denuncia anche Valorie K. Vojdik, ricercatrice dell’università del Tennessee: all’indomani degli stupri di massa compiuti durante i conflitti armati in ex Jugoslavia e Rwanda, “i tribunali internazionali hanno riconosciuto la violenza sessuale contro le donne come arma di guerra, crimine contro l’umanità e strumento di genocidio”. D’altro canto “anche gli uomini sono stati stuprati, castrati o aggrediti sessualmente e tuttavia essi sono ancora largamente assenti dalla giurisprudenza internazionale”. Lo stesso tema è stato di recente trattato anche da Thomas Osorio, ricercatore associato all’Università di Leuven in Belgio e per conto dell’Onu in materia di diritti umani, in un servizio rilasciato alla BBC.
Un ruolo cruciale è giocato poi da una diffusa cultura della vergogna: la colpevolizzazione della vittima (di qualunque sesso e identità di genere) che in molti Paesi viene ancora colpita dallo stigma sociale e preferisce così tacere sulle violenze subite piuttosto che finire come un paria, emarginata dalla famiglia e dalla comunità. Il trauma non viene superato, si cronicizza: le ovvie conseguenze sono sofferenza profonda, disagi psichici e fisici, violenza che alimenta violenza.
Una guerra silenziosa, che compare in filigrana. O meglio ancora, guerre al plurale: tante, innumerevoli, non solo in Ucraina.
Nella Repubblica Democratica del Congo, in Colombia; ma anche nel Tigray, regione dell’Etiopia settentrionale in cui dal 2020 è in corso un violentissimo conflitto (oltre agli stupri di guerra si parla di genocidio); e ancora in Libia, dove il conflitto è iniziato nel 2014 e non sono oggetto di mistero le torture e gli abusi commessi nei centri di detenzione in cui vengono trattenuti anche i migranti, con la complicità dell’UE.
Ma l’elenco sarebbe ancora molto lungo. Mentre oggi i media puntano gli occhi su un unico teatro di strage, ci dimentichiamo che i Paesi intrappolati in un conflitto sono molti di più, che gli esseri umani soffrono, subiscono violenze e muoiono anche al di fuori dell’Europa.