Sono le 17:58 del 23 maggio del 1992 sull’autostrada A29 che porta a Capaci, frazione dell’isola delle Femmine, a Palermo. Uno scoppio di una carica composta da tritolo, RDX e nitrato d’ammonio fa esplodere le tre auto blindate con a bordo il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta: Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo.
Sono passati 30 anni dall’attentato di stampo mafioso per eccellenza, organizzato durante le varie riunioni della “commissione interprovinciale” di Cosa Nostra, durante cui erano soliti incontrarsi i capi mafiosi delle province di Palermo, Trapani, Enna, Caltanissetta e Agrigento.
Per l’esecuzione, si decise di chiamare lo “scannacristiani” Giovanni Brusca, a cui vennero proposte due possibilità: infilare l’esplosivo nei cassonetti vicini all’abitazione del giudice Falcone o inserirlo nel sottopassaggio pedonale dell’autostrada A29, ma per alcuni tecnicismi e problematiche ad essi associate, si decise, dopo una serie di sopralluoghi sul territorio, di porlo nel cunicolo del drenaggio al di sotto dell’autostrada, nel tratto dello svincolo di Capaci.
Il giudice Falcone si era allora recato a Roma, e sarebbe dovuto tornare a Palermo a breve. I movimenti della Fiat croma che lo avrebbero dovuto portare nel capoluogo siciliano erano stati seguiti minuziosamente fin dalla metà di maggio, e giunto il 23 dello stesso mese, Brusca appostato lì già da un paio di ore, dopo un attimo di esitazione dettato dal rallentamento dell’auto del giudice, decise di attivare il radiocomando, provocando l’esplosione.
Il movente all’apparenza è chiaro. Falcone insieme a Borsellino, era all’epoca (e rimane tutt’ora) simbolo della lotta alla mafia.
Ma i due magistrati si fecero promotori di una guerra riguardante un sistema ben più grosso, quello politico-economico con essa in parte colluso. È dello stesso anno infatti, lo scandalo finanziario di Mani Pulite, che provocò la caduta della prima repubblica italiana, e a cui Falcone dedicò una parte delle proprie indagini in seguito al maxiprocesso di Palermo; esse permisero di far trapelare la notizia ricevuta da Tommaso Buscetta (mafioso e poi collaboratore di giustizia) degli accordi tra la mafia e il gruppo Ferruzzi, la cui colpa fu quella di versare numerose tangenti al cosiddetto “Compagno G”, Primo Greganti, membro della scena politica dell’epoca.
Falcone fu colui che smantellò il modello di mafia esclusivamente sanguinaria, con il cosiddetto “metodo Falcone”, nonché la ricostruzione degli affari criminali attraverso la documentazione bancaria. Riuscì infatti a mettere alla luce i rapporti tra le banche palermitane e il traffico di stupefacenti dei clan mafiosi, che raggiunse anche vari territori d’oltreoceano appartenenti agli Stati Uniti: la sua prima grande indagine, infatti, riguardò Rosario Spatola, impresario edile di Palermo, il quale ricevette una condanna di 10 anni per traffico di droga e una di 3 per la tangente versata a Vito Ciancimino, politico italiano membro della Democrazia Cristiana. Spatola stesso, dopo pochi anni riuscì poi a fuggire negli USA dal proprio cugino John Gambino, all’epoca boss di Cosa nostra statunitense, dedicandosi appunto a vari traffici illeciti.
Dietro la strage di Capaci, c’è però anche un altro movente, meno evidente, cioè quello politico.
Cosa nostra era infatti alla ricerca di nuovi referenti politici, ed era chiara la loro volontà di voler fare pressione su una compagnia governativa che fino a quel momento aveva attuato, seppur in minima parte, una politica di contrasto nei confronti dell’espansione della criminalità organizzata.
La guerra contro la mafia si è protratta poi anche dopo la strage e dopo la morte del giudice Falcone, con l’utilizzo di mezzi che però tutt’ora sono alquanto limitati: uno di questi è l’ergastolo ostativo, che esclude l’applicabilità di benefici penitenziari agli autori di reati riprovevoli, quali i delitti di criminalità organizzata, terrorismo ed eversione. L’ergastolo ostativo, però nel 2021 è stato dichiarato incompatibile con la Costituzione italiana e che sarà in futuro nuovamente oggetto di discussione: l’8 novembre prossimo ci sarà un tentativo di riscrittura della legge.
Tutt’ora le indagini sono aperte per i numerosi veli d’ombra presenti sulla vicenda.
A trent’anni dalla strage, i PM stanno verificando se ci fu un ruolo nell’agguato del neofascista Stefano Delle Chiaie, fondatore dell’Avanguardia e poi cofondatore dell’organizzazione di destra Ordine Nuovo. Delle Chiaie finì spesso nei processi delle grandi stragi fasciste, uscendone però sempre pulito, e secondo alcune dichiarazioni da verificare, fatte in colloqui investigativi non utilizzabili processualmente, è probabile abbia avuto un ruolo all’interno della vicenda. Di Ordine Nuovo faceva tra l’altro parte anche colui che fornì il telecomando della strage e che fu successivamente condannato per l’accaduto di Capaci, Pietro Rampulla. Probabile che il giudice Falcone avesse capito l’intreccio tra la mafia di Totò Riina e di alcune frange della destra italiana.
A 30 anni dalla strage, la morte del giudice Falcone è ancora di grande impatto, e fu piuttosto massiccio anche quello dell’epoca. I membri di Cosa Nostra fecero propria la convinzione secondo cui l’uccisione del giudice Falcone e quella del giudice Borsellino (avvenuta nel luglio dello stesso anno) avrebbero permesso loro di acquisire nuovamente le redini del potere in maniera totalizzante, seppur parallelamente. In realtà questi eventi smossero la coscienza civile dei palermitani e degli italiani, che iniziarono a comprendere il valore del lavoro dei due magistrati, che ancora oggi è esempio di speranza e della specifica consapevolezza che la mafia si possa affrontare senza avere paura.