
Il 21 maggio 2022 si è aperto il processo che vede imputate 21 persone tra volontari, capimissione e membri del personale di bordo delle navi di diverse ONG operanti nel Mediterraneo per il salvataggio di migranti, tra le quali Medici senza frontiere, Save the Children e Jugend Rettet. Proprio quest’ultima era proprietaria della Iuventa, una nave di salvataggio nata dall’iniziativa di alcuni giovani attivisti tedeschi. I reati di cui gli imputati devono rispondere sono favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e falso: accuse gravissime, per le quali rischiano fino a vent’anni di reclusione.
Il processo scaturisce da un’indagine iniziata nel 2016 dalla Procura di Trapani, quando in piena crisi immigratoria anche i governi di centrosinistra andavano assumendo tinte sovraniste nel tentativo di contenere gli sbarchi di migranti nel Mediterraneo. Tra gli elementi probatori raccolti dagli inquirenti, vi sono fotografie, video e testimonianze che documentano l’operato di chi salvava i migranti sulle “carrette del mare”. Fonte di queste prove, come risulta dagli atti, sarebbe un agente dei servizi segreti italiani fatto imbarcare sotto copertura sulla nave Vos Hestia di proprietà di Save the Children, insieme ad altri tre 007 infiltrati nella stessa con l’agenzia Imi Security Service (con sede in provincia di Massa-Carrara). Tutti e quattro riferirono del compimento delle operazioni ai leader di Movimento 5 stelle e Lega, nonché con relazione di servizio al capo dei servizi segreti.
Da quando la Procura iniziò ad indagare, venne monitorata una serie di fatti ritenuti sospetti, che prossimamente verranno discussi in aula.
Il caso era assurto all’onore delle cronache nell’agosto 2017, quando la Procura trapanese mise sotto sequestro la Iuventa, stato in cui la nave si trova tuttora. Nell’aprile 2018 la Corte di Cassazione aveva respinto il ricorso presentato dai legali della Jugend Rettet, con cui – pur senza contestare nel merito gli addebiti mossi dalla Procura – si eccepiva il difetto di giurisdizione dello Stato italiano, trattandosi di nave battente bandiera olandese con equipaggio tedesco.
I quattro imputati per la Jugend Rettet sono Kathrin Schmidt, Dariush Beigui, Sascha Girke e Uli Tröder, che hanno contribuito nel 2016/2017 a salvare più di 14.000 persone dalla morte per annegamento nel Mediterraneo centrale. Kathrin era la responsabile delle operazioni sul progetto della nave, Sascha il capo della missione, Dariush il capitano.

Un’ottima ricostruzione dei fatti contestati è stata svolta dal Forensic Architecture, un gruppo di ricerca multidisciplinare con sede presso l’Università Goldsmiths di Londra, che si occupa di casi in cui i diritti umani vengono violati. Vengono presi nello specifico i tre eventi che messi al banco degli imputati.
Il primo è del 10 settembre 2016, quando 140 migranti provenienti dalla Libia venivano messi in salvo sulla Iuventa. La Procura, sulla scorta delle foto e delle testimonianze degli agenti dei servizi, individua due uomini che sarebbero rimasti sull’imbarcazione, per poi tornare verso la costa libica. Il Forensic, però, analizzando ogni fotogramma a sua disposizione, ha concluso che nel momento in cui venivano eseguite le operazioni di salvataggio – condotte dalla Iuventa in coordinamento con altre 5 navi di ONG, un elicottero della marina militare italiana, un aereo militare spagnolo e la nave militare irlandese James Joyce – gli agenti imbarcati sulla Vos Hestia non avrebbero potuto assistere se non a una sola operazione di salvataggio (quella nei confronti dei migranti presenti su un’imbarcazione con la scritta blu sulla poppa, come evidenziato dall’analisi degli orari).
Stando allo studio, tra le 10:20 e le 15:50 i migranti sono stati tratti in salvo dalla Iuventa e in seguito trasbordati sulla nave militare irlandese dal relativo equipaggio; dopodiché, l’imbarcazione con la scritta blu sulla prua, rimasta vuota (e inquadrata in alcune foto scattate prima e dopo le 16:00), è stata spostata più in là per fare spazio alla Vos Hestia, che doveva caricare altri migranti. Alle 18:26, infine, risulta agli esperti come la barca da cui i migranti erano scesi fosse poi stata bruciata, proprio per impedirne il riutilizzo da parte degli scafisti.
Il secondo ed il terzo evento, invece, risalgono al 18 giugno 2017, giornata che i registri di bordo e le foto scattate dagli agenti documentano essere stata di intenso lavoro per la Iuventa. L’equipaggio, dopo una prima operazione di salvataggio di migranti, sembrerebbe aver riportato le imbarcazioni ai trafficanti libici.
Secondo la Procura, inoltre, ci sarebbe stato uno “scambio”, una vera e propria interlocuzione tra l’equipaggio e gli scafisti.
Anche qui il Forensic si è munito di immagini, video e ricostruzioni sofisticate, tra cui quella operata su un video girato da un operatore di Reuters a bordo della Iuventa. Calcolando le coordinate, la direzione del vento, posizione della Terra rispetto al sole e molte altre variabili, i ricercatori britannici sono giunti alla conclusione che quelle imbarcazioni (e in particolare la barca che si vede nel video con la scritta “KK”), che, secondo la Procura, sarebbero state rimandate al mittente, e cioè verso la costa libica, se ne stessero invece allontanando.
Al che si aggiunge ─ fra le controprove fornite dal Forensic ─ il video di una telecamera collocata sul casco di un soccorritore della contigua nave Vos Hestia: i ricercatori ritengono, alla luce dei risultati dell’analisi delle coordinate gps, che l’imbarcazione KK sia stata trasportata per circa 800 m verso nord ovest (quindi, in direzione opposta rispetto alla Libia), e che le altre imbarcazioni siano state allontanate di 200 m per fare spazio alle altre da soccorrere. Il tutto nell’ottica di agevolare le operazioni dei soccorritori, visto che si trattava di manovre volte a mettere i migranti al sicuro.

Arriviamo ora alla famosa interlocuzione tra l’equipaggio e gli scafisti. L’accusa parla di una sorta di dialogo, di una “consegna pattuita”, come se ci fosse stato un accordo tra le parti (volontari e trafficanti). Riguardando i video girati dagli operatori della Iuventa, però, si vede chiaramente come gli operatori della Jugend Rettet stessero comunicando direttamente con i migranti, e non con gli scafisti.Tutto questo è stato possibile grazie alle tecnologie di ultima generazione utilizzate dai ricercatori: infatti sono riusciti a potenziare l’audio di quel video per comprendere appieno la conversazione, in cui si chiedeva ai migranti se parlassero inglese e quanti fossero a bordo. A questo punto i trafficanti avrebbero parlato con i migranti e non, quindi, con i soccorritori.
In tutto ciò, non si vuole affatto raccontare una sorta di “controstoria” su quanto accaduto tra il settembre 2016 e il 2017 nelle acque del Mediterraneo, e men che mai avallare versioni innocentiste in favore di persone che, ad ogni buon conto, hanno avuto sin dal primo momento i più profondi e assolutamente legittimi attestati di solidarietà da parte di ampie frange della società civile.
Tuttavia, a chi da più parti invoca la cessazione immediata del processo – al di là del caso limite in cui effettivamente sussistano gli estremi per un immediato proscioglimento nel merito degli imputati (art. 129 c.p.p.) – andrebbe forse ricordato che in ogni parte del mondo civilizzato i processi si fanno prima di tutto per accertare la verità dei fatti. La verità su come sono andate le cose. Né avrebbe senso dipingere l’accusa come un “boia” alla ricerca a tutti i costi di un colpevole odi qualche capro espiatorio da criminalizzare. Nel nostro ordinamento vige il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.), che impone al pubblico ministero, in presenza di una notizia di reato fondata e di elementi probatori sufficienti a sostenere l’accusa in giudizio, di perseguire penalmente il o i soggetti a cui quel reato è attribuito.
Non ci sono, almeno sulla carta, margini di discrezionalità. Per quanto si possa puntare il dito sulla presunta “politicizzazione” di certi processi, resterà sempre presunta nel corso di essi anche la non colpevolezza degli imputati fino alla condanna definitiva (art. 27 co. 2 Cost.), ferma restando anche la fondamentale previsione che impone al p.m. di cercare anche le prove a favore dell’imputato (art. 358 c.p.p.).
Al netto della sequela di fatti storici poc’anzi esaminata, di cui si discuterà nelle sedi opportune, può essere utile inquadrare gli avvenimenti presi in esame nel loro contesto.
Nel 2016, il Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni aveva firmato con la Libia un memorandum d’intesa per gestire l’immigrazione irregolare. Questo trattato ha avuto conseguenze sin dalla sua entrata in vigore: l’obiettivo era quello di fermare l’immigrazione clandestina, anche a costo di convincere i migranti a tornare indietro, nonostante si trovassero già per mare. Si voleva creare una sorta di “muro virtuale”, tale per cui meno persone fossero incentivate a sbarcare dal Nord Africa per raggiungere le coste italiane. Negli ultimi cinque anni almeno 85.000 persone sono state riportate in Libia. Persone che probabilmente avevano intrapreso viaggi lunghissimi e molto costosi per riuscire a garantirsi un futuro migliore.

È lo stesso periodo in cui circolavano molte fake news sulle ONG che operano salvataggi in mare: si insinuava che i soccorritori potessero intrattenere relazioni di scambio con gli scafisti, e che la stessa attività delle ONG non fosse completamente trasparente. Erano informazioni errate, basate su sospetti e diffidenze, che sono poi state raccolte dalla campagna elettorale per il governo successivo. Ricordiamo tutti quando Matteo Salvini si era fatto grande di fronte al fermo ad una nave di migranti, quando li aveva lasciati in mare per 20 giorni come simbolo contro l’immigrazione clandestina. La lotta della Lega alle ONG è ormai storica, le posizioni xenofobe anche. Uno dei suoi tweet diceva, ad esempio: «gli italiani hanno bisogno di un governo forte, non è ammessa timidezza quando sono in gioco la sicurezza e i confini della Patria».
Il problema è che in tutti questi casi abbiamo un punto comune: la Libia. Un Paese illiberale, in cui dilaga la corruzione, in cui la frammentazione politica è enorme e dove hanno luogo continue violazioni dei diritti umani, come nei famosi centri di detenzione dei migranti. Ad oggi abbiamo due diversi pseudogoverni che convivono nello stesso territorio, ministri che vengono fatti sparire e delle elezioni che ancora non si sono viste.
L’accordo Italia-Libia rimane e molte, moltissime persone stanno perdendo la vita per causa sua. Questo trattato internazionale è uno dei pochi che stabilisce norme ad hoc sul fronte della gestione dei flussi migratori tra Africa ed Europa. Per il resto, l’immigrazione rimane per la maggior parte nelle mani dei trafficanti, che ne fanno – com’è noto – un vero e proprio business. D’altro canto, il sentimento di odio nei confronti del “diverso”, radicato in buona parte della popolazione italiana, non è d’aiuto in momenti di crisi umanitaria, come non lo erano nemmeno gli slogan “stop invasione” della Lega.
Ormai non siamo più in quel periodo di campagna elettorale, ma nell’opinione pubblica ci sono delle idee consolidate e, molto spesso, non sono favorevoli ai migranti.