Del: 4 Giugno 2022 Di: Camilla Restelli Commenti: 0
Si va in scena: Miseria e nobiltà

Miseria e nobiltà è una delle più celebri commedie di Eduardo Scarpetta che, nel 1887, è riuscito magistralmente a portare sulla scena una Napoli spaccata socialmente in due metà. La città appare popolata sia da chi, pur “faticando” non può guadagnarsi nemmeno un misero tozzo di pane per cena, sia da chi, invece, vivendo nell’agio, dopo un lauto pranzo, ricco di ogni genere di prelibatezza, si trova, annoiato, a logorarsi per faccende mondane di poco conto.

La commedia, riproposta dagli artisti della compagnia teatrale Caraval e andata in scena domenica 22 maggio al Teatro S. Domenico di Crema, ha riportato in vita la lotta tra poveri e nobili, arricchiti e finti ricchi descritta da Eduardo.

Questa volta però a combattere sono stati zanni, padroni e innamorati, ossia dai personaggi della commedia dell’arte.

I protagonisti, Felice Scioscamocca e Pasquale o’ Salassatore, sono stati infatti sostituiti dalle maschere di Arlecchino e Pulcinella, e la trama, riadattata dal regista Lorenzo Samanni, si è incentrata su quegli elementi che fungevano tipicamente da snodo nelle commedie dei teatranti dell’arte: equivoci, malintesi e situazioni divertenti, in grado di suscitare il riso e al contempo riflessioni di carattere sociale ed esistenziale.

La trama ha al suo centro proprio Arlecchino e Pulcinella che, assieme alle rispettive compagne, pur di fuggire dalle rovine della casa fatiscente di cui sono abitanti abusivi e di mettere qualcosa di sostanzioso sotto i denti, acconsentono di aiutare il marchesino Eugenio.

Quest’ultimo, innamorato della corteggiatissima ballerina Gemma, da cui è ricambiato, non può tuttavia coronare il sogno di averla accanto a sé, in quanto ostacolato sia dalla sua famiglia che dal padre dell’amata, il quale gli concederà la mano della primogenita solo se riceverà la visita dei parenti del futuro cognato.

Al nobile non resta quindi che giocare d’astuzia e di ordire un inganno per raggiungere il sospirato lieto fine: recarsi nell’abitazione dell’amata con i suoi poveri e furbi compari che, ben disposti a fingersi nobili per un giorno, in vista di una ricompensa prelibata, indosseranno abiti raffinati e parrucche alla moda.

Il piano, tuttavia, è destinato allo sfacelo. Questo perché a lavorare come servetta presso la casa di Gemma non è altri che Colombina, vecchia fiamma di Arlecchino, abbandonata da lui qualche anno prima e per questo disposta a vendicarsi, nonostante ne sia ancora follemente innamorata.

Come se non bastasse, a essere un assiduo frequentatore della casa della ballerina è un certo Signor Bebe, ossia il padre del marchese Eugenio, famoso in città per le sue numerose tresche amorose, il quale, sotto mentite spoglie, è disposto a tutto pur di ottenere carnalmente la ragazza.

Lo spettacolo della compagnia Caraval, nato come tanti altri dalla volontà di tradurre senza tradire, è stata una piacevole e inaspettata messinscena.

Lo spirito dell’opera originale infatti non è stato affatto oscurato e il riadattamento non solo si è rivelato fedele alla trama, ma non si è discostato minimamente dalle tecniche e dagli stratagemmi utilizzati all’epoca dei commedianti dell’arte.

Il regista infatti si è premurato in primis di rispettare le cadenze regionali delle singole maschere (veneta nel caso di Arlecchino, napoletana per Pulcinella) e di lasciare che solo i nobili parlino in italiano, anche se spesso persino le loro battute sono contrassegnate da storpiature ed espressioni fuori contesto, volte a ironizzare la moda dei ricchi di allora (o dei finti tali) di usufruire di un lessico forbito ma non padroneggiato del tutto.

Nella Commedia dell’Arte infatti i personaggi maggiormente parodiati a livello linguistico erano solitamente i membri delle classi superiori o di quel ceto intellettuale che, pedante e borioso, si esprimeva mediante turbinosi giri di parole, infarciti di citazioni latine maccheroniche errate per sfoggiare vanità e una cultura apparentemente elevata.

Messa in scena: miseria e nobiltà
Foto di Giulia Scattini.

Lo spettacolo dunque ha rispettato quel gioco plurilinguistico che costituiva, alle origini della Commedia, un elemento di attrattiva grazie alla sua stratificazione linguistica: l’italiano letterario e il dialetto delle varie zone italiane erano infatti comprensibili anche al di là dei confini regionali e connotavano fortemente i personaggi, garantendone l’identificazione da parte del pubblico.

Altrettanto accurata è stata la scelta di non far indossare la maschera agli innamorati, esattamente come accadeva nella Commedia dell’Arte, e di rispettare i costumi della tradizione.

In particolare non può essere sfuggito il contrasto tra la veste di Arlecchino, che ricalca quella degli albori del personaggio, quando ancora era costituita da pezze e non da eleganti losanghe (che sarebbero arrivate invece nel Sei-Settecento), per contrassegnare lo status sociale alquanto misero del personaggio (la maschera infatti in origine rappresentava un contadino del bergamasco recatosi a Venezia in cerca di lavori alla giornata e di un po’ di fortuna) e le vesti pompose e sfarzose dei nobili, in alcuni casi troppo strette in prossimità di un girovita che straborda vistosamente.

messa in scena: miseria e nobiltà
Foto di Giulia Scattini

Apprezzata è stata anche la decisione di riprodurre un ambiente differente per i due atti della commedia. Nel caso del primo, lo spettatore si è trovato davanti ad una scenografia scarna, miserrima, volta a rappresentare un rudere destinato ad essere presto demolito, simile più ad una sorta di cantiere in fieri che ad una casa.

Il secondo invece è risultato agli occhi dei presenti fin troppo adorno, strabordante di arredi e fiori di ogni varietà e cromia. Insomma, un vero e proprio ammasso magmatico di oggetti in grado di trasmettere una sensazione di eccesso e pesantezza visiva, totalmente opposta rispetto alla percezione di vuoto che connota l’ambiente del primo atto.

Davanti a queste due scene non si è potuto fare a meno di pensare al contrasto su cui gioca la commedia fin dall’apertura del sipario: la fame, la miseria e la povertà da una parte, la sovrabbondanza e l’ingordigia dall’altra.

Foto di Giulia Scattini

Compagnia Caraval, perfettamente calata nella parte, ha dato prova di essere la degna depositaria non solo del lavoro di Eduardo, ma di tutta quella tradizione teatrale che si basava su una recitazione inventiva, improvvisata (non a caso la questa tipologia spettacolare all’inizio veniva chiamata l’improvvisa) e sul coinvolgimento degli astanti.

La Commedia dell’Arte infatti era un teatro incentrato sull’attore che, grazie al suo talento, riusciva a innestare su trame standardizzate e su canovacci ridotti ai minimi termini, qualcosa di nuovo, unico e creativo con l’intento di divertire e, per la prima volta nella storia del teatro, persino di ottenere un tornaconto economico (da qui il termine Arte con accezione di mestiere).

Ebbene, gli attori della compagnia Caraval si sono rivelati capaci di riportare in vita l’atmosfera dei commedianti delle origini, anche grazie ad alcune gag improvvisate, sequenze mimico-gestuali e acrobatiche che hanno messo in luce, tra le loro molteplici doti, un grande virtuosismo scenico.

Come gli attori delle prime rappresentazioni teatrali hanno dato infatti spazio a quella fisicità che all’epoca era necessaria non solo per far ridere ma soprattutto per trasmettere emozioni, dato che le maschere dei personaggi celavano l’espressione facciale dei teatranti.

Non si può quindi non lodare questo meritevole riadattamento della commedia di Eduardo che è ben riuscito nei suoi ambiziosi intenti: omaggiare non solo un grande autore ma soprattutto andare dritto al cuore dello spettatore.

Gli astanti, infatti, non si sono limitati a ridere e a battere le mani a ritmo di musica, ma si sono sentiti parte, fin dall’inizio, di un mondo atavico e spregiudicato che si è popolato prima di allegria e buonumore, per poi crollare di fronte alla consapevolezza che le differenze sociali non sono altro che barriere mentali accettate convenzionalmente e autoimposte da pregiudizi ingannevoli.

Perché se è vero che sia il ricco che il povero sono disposti a tutto pur di sedersi a tavola per godersi un pasto abbondante e dignitoso, è altrettanto vero che nella ricerca del lieto fine e nell’appagamento dei sentimenti più puri e sinceri, siamo tutti uguali. E qui non c’è alcuna differenza sociale che tenga.

(in copertina: foto di Giulia Scattini)

Camilla Restelli
Letterata, scrivo e compongo versi per nutrire la mente e curare l’anima. Viaggio, sorrido e mi innamoro spesso. Per gli amici: Camille.

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