I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
Con queste parole si chiude l’articolo 34 della Costituzione Italiana. Questa specifica parte è rimasta invariata sin dalla sua approvazione nel lontano 26 ottobre 1946. Sono gli anni in cui la riforma Gentile era ancora il modello vigente e gli anni in cui la legge 11 dicembre 1969 non aveva ancora liberato l’accesso alle università, eliminando il vincolo della maturità classica.
I gradi più alti degli studi rimangono di fatto ad appannaggio dei più capaci e meritevoli per la nostra Costituzione.
È innegabile come l’università Italiana, per quanto cerchi di mascherarsi come una istituzione sempre più accessibile e al passo coi tempi, sia figlia di una mentalità antidiluviana, e lo provano i dati.
Incrociando i dati di Almalaurea e di Eurostat, emerge che in Italia nel 2017 abbiamo avuto più di 500.000 abbandoni risultando seconda solo alla Francia in questo ambito, mentre per Eurostat i nostri laureati rappresentano solo il 25%, a differenza della media europea che si attesta sul 41.6%.
Se il problema fosse circoscritto agli abbandoni e a un basso tasso di studenti laureati sarebbe una questione marginale. Tuttavia, questi dati disastrosi hanno la conseguenza il provocare reazioni forti in alcuni giovani studenti che, arrancando tra esami non dati, tempistiche non rispettate e professori poco comprensivi, si spingono al suicidio.
Allora, dobbiamo seriamente riflettere sulle fondamenta del nostro sistema universitario.
Stando all’ultima indagine ISTAT (fatta nel 2019) il numero di suicidi annui complessivo è di 3680, tra questi 514 avevano tra i 15-34 anni e molti di essi erano studenti universitari. È inoltre da segnalare come per l’OMS, il suicidio, rappresenti una delle prime 4 cause di morte tra i giovani compresi in una fascia d’età tra i 15 e i 29 anni.
È anche rilevante, ma soprattutto urgente, segnalare che chi spesso compie questi atti, non compie l’insano gesto da un momento all’altro, ma costruisce prima una rete di menzogne sul numero di esami dati e sul tempo mancante alla conclusione del percorso universitario, spesso suicidandosi proprio il giorno della presunta Laurea.
Questo è il caso di Giada di Filippo, morta lanciandosi dal tetto della sua università, la Federico II di Napoli, e di altri come lei, come Antonio, studente di filosofia e lettere, o del ragazzo abruzzese che studiava giurisprudenza a Roma. L’elenco non si esaurisce.
Se la psicologia sociale ci ha insegnato che il sé non è solo individuale ma anche interdipendente, radicato nell’appartenenza a un ordine culturale, e che si costruisce nella relazione con altri, come si può non capire il peso che sentono i ragazzi che vivono in una società che vede come un fallimento la rinuncia agli studi, un voto sotto il 26 o l’andare fuori corso?
Come può l’università non adattarsi al fatto che è ormai non è più un semplice luogo di alta cultura, a discapito di quanto recita l’articolo 33, ma è uno standard da raggiungere? Come ci può sembrare assurda la loro scelta di farla finita?
È difficile capire dove sia l’origine del male, ma sembrerebbe esserci una falla, sia a livello istituzionale, sia culturale.
Se l’università Italiana non ha saputo mettere un freno all’abbandono universitario, la struttura fortemente competitiva che la nostra società proietta sull’istruzione rende l’università uno stato di guerra.
«Homo omini lupus» diceva Hobbes. Se guardiamo alle nostre facoltà potremmo tranquillamente riformulare questa locuzione dicendo che «lo studente è lupo per l’altro studente». Tra posti estremamente limitati per i dottorati, l’impossibilità di entrare in ambito accademico senza una media perfetta, le borse di studio ottenibili solo con una certa media e altro ancora, ci rendono tutti alla ricerca di vantaggi competitivi a discapito degli altri.
Platone affermava che la conoscenza è il bene maggiore perché ottenendola non togli niente agli altri. Le nostre università devono aver preso la direzione contraria. Forse gli atenei, in quanto sedi della cultura, dovrebbero farsi prime promotrici di una “cultura del fallimento”, oltre a ripetere che gli studenti non devono sentirsi classificati in base a un numero.
Perché, mentre i professori predicano bene, c’è chi si dispera per un voto basso, chi si dispera per non essere uscito col massimo dei voti o ancora peggio: chi si dispera perché non riesce nemmeno a superare gli esami.
La colpa è loro o di professori intransigenti e scortesi, che chiedono un’eccessiva mole di studio e programmazioni degli appelli fatte senza nessun riguardo verso gli studenti?
L’università dovrebbe forse rivedere il suo status, ammorbidire la sua inflessibilità accademica e pensare a un rapporto con gli studenti più umano, che vada oltre al loro numero di matricola.
Mentre una moltitudine di studenti si presenta agli esami e li passa in un modo o nell’altro e altri si laureano con un voto più o meno alto, esiste anche una moltitudine di studenti che arranca e rinuncia agli studi a seguito di continui fallimenti nella più totale indifferenza.
Una cerchia più ristretta, ma che rappresenta comunque un numero grave e preoccupante, decide la soluzione meno dolorosa ma più tragica, di non affrontare un problema che in una società sana non dovrebbe nemmeno esserlo: quello del fallimento.