L’Elvis di Baz Luhrmann non è l’idolo macho che è stato tramandato per generazioni. È un ragazzino capriccioso con un fascino di cui si rende conto a malapena, che viene trascinato dagli eventi e dai personaggi influenti senza mai veramente prendere decisioni. Il primo scoglio per l’emergente star del rock ‘n roll non consiste in avversari nella scena musicale o un pubblico restìo, come accade solitamente, ma da esponenti politici. Le sue movenze troppo esplicite vengono categorizzate come vergognose per il pudore pubblico e viene addirittura minacciato di finire in prigione. La sua musica, ispirata quando non addirittura copiata da quella dei cantanti blues neri, diventa simbolo di devianza e disordine.
Nel periodo in cui il movimento per l’uguaglianza degli afroamericani comincia ad ottenere le sue prime vittorie, Elvis viene costretto a non poter mostrare il suo supporto.
La tematica della partecipazione politica non è ovviamente centrale nella pellicola, ma offre uno spunto interessante per parlare del rapporto della musica e in particolare delle grandi personalità con la politica. Se infatti ai tempi di Elvis aggiungere la propria voce ai cori di chi è controcorrente era praticamente impossibile, nel corso degli anni i cantanti sono diventati sempre di più portavoce di istanze politiche. Oggi non è inusuale che agli eventi musicali venga fatta esplicita politica e che sempre più fans pretendano che i loro artisti preferiti si espongano politicamente.
Come in tutti gli ambiti della cultura, la vera rivoluzione è stata quella del ’68. A fianco dei giovani che scendevano nelle strade per protestare la guerra del Vietnam, infatti, personalità di spicco della scena musicale come John Lennon e Yoko Ono producevano interi album pieni di brani a favore della pace e contro la guerra. Bob Dylan già a partire dal 1964 cantava di tempi che stavano cambiando, invocava la pace nei suoi brani e aumentava la popolarità del movimento per i diritti civili.
A partire dagli anni ’70, non solo i cantanti che si rifacevano ad idee pacifiste e condivise da molti ottennero una piattaforma. Movimenti radicali come quello anarchico ottennero estrema popolarità grazie agli inni scritti dai Sex Pistols, la rima vera punk band inglese. La loro canzone God Save The Queen (1977) venne bannata dalla BBC in quanto anti-monarchica e la band reagì sostenendo che il governo inglese fosse fascista.
Sempre all’interno della scena punk, il contributo politico più significativo fu però quello della band The Clash, che già a partire dal primo album denunciò le politiche inglesi e aizzò gli ascoltatori ad arrabbiarsi e ribellarsi. Nel 1978 parteciparono all’organizzazione di un festival a Londra chiamato Rock Against Racism, nato come risposta non solo alle tendenze riformiste della società inglese che stavano portando ad una pericolosa ascesa di consensi per il partito nazionalista neofascista, ma anche ad affermazioni di altri colleghi. David Bowie ed Eric Clapton, infatti, avevano mostrato supporto per i conservatori e auspicavano uno al ritorno del fascismo (“Hitler è stata la prima vera rockstar!”), l’altro ad impedire il “colonialismo nero” in Inghilterra.
Negli stessi anni, un altro movimento che veniva portato avanti anche grazie alla musica era quello femminista.
Nel 1975 venne prodotto The Changer and the changed di Cris Williamson, un album in cui l’artista parlava esplicitamente di essere lesbica, si rivolgeva soprattutto alle donne e di loro parlava, che divenne uno dei dischi più venduti ed è tutt’ora in produzione.
È impossibile parlare di questi anni senza fare riferimento al bel paese e alla tradizione di cantautori come Guccini, De Andrè, Gaber e molti altri, che hanno creato alcuni dei più grandi capolavori della musica italiana e si sono esposti politicamente guidando intere generazioni. L’Italia di quegli anni stava vivendo un periodo di grande fervore politico, accompagnato da alcune delle più cruente vicende di violenza all’interno della sua storia: esporsi era mettersi in pericolo, perché il pubblico era diviso tra chi non poteva capire il potere di certe parole, la forza di certe metafore e chi potesse esserne infastidito.
Nonostante dopo gli anni ’70 il clima politico sia divenuto molto più moderato e polarizzato, la musica ha continuato ad essere un importante strumento di divulgazione e mobilitazione. Mentre il pop e le “canzonette” avevano la meglio sulle radio, David Bowie fortunatamente si pentiva dell’esagerata assunzione di droghe che lo aveva portato a fare certe affermazioni e cercava di migliorare la sua immagine con piccoli gesti.
La vera svolta nel rapporto della musica con la politica in quegli anni fu in realtà portata avanti all’interno della scena hip hop, in cui gli artisti denunciavano le ipocrisie della società occidentale, le disuguaglianze, i rapporti di classe e le ingiustizie che le comunità marginalizzate subivano ogni giorno. Sopra alle basi old school che ancora oggi fanno ballare, i testi denunciavano gli abusi della polizia e incitavano la comunità di afroamericani ad unirsi per creare “la nazione nera”. Le voci più influenti erano quelle della band Public Enemy e dei Grandmaster Flash and the Furious Five.
Fuori dalla scena rap, gli anni ’80 non hanno avuto di sicuro il fervore politico del decennio prima, né di quello successivo. Nonostante ciò, ci sono diversi esempi di interazione tra musica e politica.
La band più impegnata dal punto di vista politico erano probabilmente gli U2, che denunciarono senza peli sulla lingua le violenze inglesi in Irlanda con la celeberrima Sunday Bloody Sunday. La musica stava vivendo un’età dell’oro e molti cantanti si conoscevano tra loro e scelsero di collaborare per cause che stavano loro a cuore: così nacquero a scopo benefico We are the world e Do they know it’s Christmas?, che vedevano la collaborazione di tutti i più importanti cantanti americani ed inglesi. Nel 1988 venne organizzato un concerto tributo per Nelson Mandela al Wembley per cui i Simple Minds scrissero il celebre brano Mandela Day.
Il grande contributo politico degli artisti di questi anni avvenne soprattutto in forma implicita, senza mai che essi dovessero definirsi ad un pubblico o prendere istanze precise. Così mentre Thatcher e Reagan governavano due delle più importanti nazioni nel panorama mondiale all’insegna del conservatorismo e dell’oppressione della diversità, in radio e nei primi programmi dedicati ai video musicali e ai live passavano Boy George e Grace Jones.
Anche le dive cui le cantanti pop di oggi si ispirano non hanno mai avuto il coraggio di impedire ai manager di controllare la loro immagine o di dichiararsi a favore del movimento che permetteva loro di essere finalmente libere di esprimersi, ma sono brani come Girls just wanna have fun, Material Girl e I will survive che hanno creato le future ragazze ribelli della terza ondata femminista anni ’90. Anche in Italia sono state le donne a portare avanti una rivoluzione silenziosa, nascondendo in ritmi orecchiabili e body sgambati delle parole su cui nessuno si sarebbe soffermato abbastanza a lungo da poterne cogliere i significati.
Il decennio successivo è stato molto più influente nella politica rispetto agli shining 80s: il rock cominciava ad essere soppiantato nella cultura popolare dal genere grunge, con i Nirvana, gli Alice in Chains e i Pearl Jam.
Questo genere era soprattutto legato ad una specifica estetica, ma i testi parlavano di un malessere comune alla generazione dei giovani che sempre più si sentiva persa e senza futuro, che non aveva fiducia nelle istituzioni e desiderava ribellarsi al sistema. La voce emblematica della scena rap di quegli anni è quella di Tupac Shakur, forse uno dei massimi esponenti di questo genere musicale e sicuramente uno degli esempi più celebri di artisti che non hanno avuto paura di esporre la società.
Con il movimento delle Riot Grrrl, la musica punk si univa alla politica e in particolare al femminismo indissolubilmente: la band più popolare parte del movimento sono probabilmente le Bikini Kill e The Hole (di cui Courtney Love era leader). Ma le voci femminili influenti degli anni ’90 erano molteplici e non si limitavano ad un solo genere: regine indiscusse della scena pop, Britney Spears e Christina Aguilera ottennero grande successo alternando alle hit più superficiali testi sulle pressioni sociali per la bellezza o sul rapporto morboso che i media e i fan costringevano le celebrità ad avere. Un’altra voce femminile che ha avuto il coraggio di farsi sentire per denunciare ingiustizie è quella di Dolores O’Riordan, leader e voce principale dei The cranberries, il suo singolo Zombie è tutt’ora uno dei più famosi esempi di brani politici.
I primi anni 2000 sono stati per molti versi poveri di sostanza se non per alcune sporadiche collaborazioni che si rifacevano soprattutto a successi del passato. L’impegno dei cantanti nella scena politica è tornato ad essere influente con l’arrivo di Lady Gaga. La pop star infatti si è sempre fatta portavoce dei diritti delle minoranze tutte, offrendo particolare supporto alla comunità LGBTQIA+, che in quegli anni cominciava ad ottenere importanti successi. L’avvento di internet rese l’artista la prima a creare un vero e proprio “fandom”, inteso come una sorta di famiglia, e ad avere fans devoti che la idolatravano sia come artista che come figura politica.
Ad oggi, infatti, quasi tutti i cantanti famosi grazie ai social hanno la possibilità di comunicare istantaneamente le loro idee ai fans e creare con loro un legame di reciprocità in termini di fiducia e rispetto. Questo crea anche delle aspettative da parte dei fans, che vogliono sempre più assicurarsi che i cantanti la pensino come loro riguardo alle discussioni politiche.
È diventato evidente quanto le voci dei cantanti siano ancora tra le più ascoltate sia durante la campagna elettorale di Trump vs Clinton sia durante le proteste che hanno seguito la morte di George Floyd.
Ormai è impossibile seguire un cantante senza avere un’idea della sua opinione politica, seppur generica, e di conseguenza diventa difficile che persone molto polarizzate ammettano di apprezzare la musica di chi si schiera dalla parte opposta. Sebbene questo possa presentare un problema, questo clima altamente politicizzato dell’ambiente musicale è però anche il risultato di un aumento della libertà dei singoli artisti e di un minore controllo da parte dell’industria: oggi Olivia Rodrigo può salire sul palco e fare il dito medio al senato americano, Taylor Swift può comunicare direttamente a Trump le sue critiche e nessuno si sognerebbe di privarle di questo diritto richiamandosi a quel pudore cui si faceva riferimento anni prima.
In Italia la scena rap è diventata negli ultimi vent’anni una delle più ascoltate, anche grazie al numero di artisti che non si limita a denunciare le piccole realtà altamente marginalizzate e la vita di strada (spesso ostentata), ma cercano di fare critiche sociali all’Italia intera. Così le penne di Fabri Fibra, Marracash, Nitro e molti altri sono le più temute da chi spera che le ipocrisie di uno Stato profondamente diviso rimangano consapevolezza dei pochi. Nonostante le innumerevoli problematicità legate al suo personaggio, Fedez è oggi uno dei più importanti artisti che non ha paura di occuparsi di politica e che in più occasioni (memorabile quella del concerto del Primo Maggio) ha indirizzato messaggi direttamente a politici o a enti pubblici.
La musica nasce per comunicare ciò che si pensa ed è naturale che le opinioni politiche entrino a far parte di essa. Non è possibile pretendere che “i cantanti facciano il proprio lavoro”, perché è prerogativa di chi vuole essere autentico mostrare anche le battaglie che intende combattere. La sfida è però distinguere tra chi crede davvero in ciò che sostiene e chi lo fa per seguire la massa; tra chi è informato e ha un’opinione fondata e chi si sente costretto a parlare di qualcosa che non conosce solo per non deludere. Quando nel 1956 Barton Hickman chiese a Presley la sua opinione riguardo alla crisi di Suez, il cantante rispose senza esitare: «È come se mi stessi parlando in francese […] Non ho quasi mai il tempo di leggere il giornale». Non sarebbe bello essere liberi di esprimersi su quello in cui si crede, ma allo stesso tempo mantenere la libertà di rifiutarsi di avere un’opinione su quello che non si sa? Quanto rumore c’è nello stare in silenzio?