Del: 25 Luglio 2022 Di: Erica Ravarelli Commenti: 2
Genesi e sviluppi dell’ennesima crisi di governo italiana

Niente di nuovo sul fronte politico italiano: le dimissioni di Mario Draghi, rassegnate al presidente della Repubblica nella mattinata del 21 luglio scorso, suonano come un ritornello del tutto privo di sorprese alle orecchie dei cittadini italiani, che dall’inizio della seconda Repubblica, nel 1994, hanno assistito al succedersi di ben 16 governi e 10 premier, per una durata media 617 giorni: poco più di un anno e mezzo. Non che il sistema della prima Repubblica funzionasse molto meglio, anzi: dal 1946 al 1994 i governi sono stati 50, per una durata media di 349 giorni. 

Pochi ma significativi dati, questi, che ci spiegano perché gli italiani si sono ormai abituati all’idea di recarsi alle urne in occasione delle elezioni nazionali molto più di una volta ogni cinque anni, come la nostra Costituzione prevede.

La crisi che stiamo vivendo, tuttavia, presenta delle peculiarità non irrilevanti. 

In primis, il premier che ha governato il nostro Paese a partire da febbraio 2021 gode di stima a livello internazionale e le sue competenze in campo economico sembravano poter assicurare una buona, se non ottima, compilazione del PNRR, la cui erogazione è subordinata all’approvazione di alcune riforme su cui verosimilmente l’Europa non concederà deroghe. Se è vero che il governo rimarrà in carica «per il disbrigo degli affari correnti», formula in cui la gestione del PNRR è inclusa, è altresì vero che è apparso alquanto irrazionale far cadere prematuramente, ossia prima del febbraio 2023, il governo guidato da Mario Draghi, impedendogli, così, di redigere la legge di bilancio che come ogni anno va presentata entro fine dicembre.

I giornali stranieri hanno parlato di “Choc per l’Europa”, non mancando di sottolineare come la crisi abbia impattato negativamente sull’ormai famigerato spread tra titoli di stato tedeschi e italiani (il picco è stato raggiunto proprio nella giornata di giovedì 21 luglio, quando il differenziale di rendimento tra un titolo decennale emesso dallo Stato italiano e il corrispondente tedesco ha raggiunto 248 punti base). 

In secundis, una campagna elettorale estiva non è esattamente lo scenario a cui si pensava di dover assistere.

Per la prima volta nella storia repubblicana, infatti, le elezioni si terranno in autunno, il che vuol dire che le liste, le firme e i candidati per i collegi uninominali dovranno essere presentati nelle Corti d’Appello nelle torride giornate del 21 e del 22 agosto. Una campagna elettorale sotto l’ombrellone, l’hanno ironicamente definita alcuni commentatori.

Al di là del disorientamento che le caratteristiche di questa crisi potrebbero suscitare negli elettori, per tutti gli indecisi è arrivato il momento di tirare le somme e di definire il proprio orientamento di voto in vista delle elezioni, che si terranno tra le 7 e le 23 del 25 settembre.

A tal fine, potrebbe essere utile ripercorrere le tappe principali che hanno portato alle dimissioni del premier.

Secondo molti osservatori, i primi segnali dell’imminente crisi sono da rinvenire nell’intervista, pubblicata dal Fatto Quotidiano il 29 giugno, dove il sociologo Domenico de Masi riportava una telefonata tra Grillo e Draghi in cui quest’ultimo avrebbe chiesto al garante del Movimento Cinque Stelle di rimuovere Conte dalla leadership del partito. Che questa conversazione sia effettivamente avvenuta è oggetto di dibattito ancora oggi dato che la sera stessa è arrivata la smentita del Presidente del Consiglio; tuttavia, ciò non è bastato a sciogliere la tensione tra i due.

Le criticità si sono acuite quando Conte ha presentato a Draghi una lista di nove punti da soddisfare che sono suonati come una sorta di ultimatum al governo: tra questi, i più emblematici sono l’introduzione del salario minimo, la proroga del superbonus edilizio (ossia una detrazione del 110% delle spese sostenute per l’efficientamento energetico o la riduzione del rischio sismico degli edifici), il no alle trivelle e lo stop alle polemiche sul reddito di cittadinanza, in merito a cui i pentastellati si sono dichiarati disposti a valutare «soluzioni per migliorare e accelerare l’inserimento al lavoro» pretendendo allo stesso tempo che l’intera misura non fosse messa in discussione.

Non era presente tra i nove punti, ma è stata comunque motivo di divisione, una norma contenuta nel decreto Aiuti che avrebbe dato al sindaco di Roma Gualtieri il potere di realizzare un termovalorizzatore nella capitale. Si tratta di un impianto che alcuni considerano necessario per la gestione dei rifiuti a Roma, mentre i pentastellati si sono sempre opposti alla sua realizzazione. Al fine di fare chiarezza, Draghi ha pertanto deciso di porre la questione di fiducia sul decreto Aiuti, in modo da costringere il Movimento a decidere se continuare a sostenere il governo o uscire dalla maggioranza.

Il premier, infatti, ha sùbito chiarito che, nonostante i voti dei pentastellati non fossero necessari per continuare ad “avere i numeri” in parlamento, la questione aritmetica non contava: fatta eccezione per Fratelli d’Italia, infatti, il “governo del presidente”era nato come governo di unità nazionale e tale doveva rimanere. L’esito del voto di fiducia ha portato il premier a rassegnare le sue dimissioni al Quirinale poiché al senato il M5S ha deciso di uscire dall’aula, di fatto non votando la fiducia. Il presidente della Repubblica, tuttavia, ha respinto le dimissioni di Draghi, esortandolo a parlamentarizzare la crisi, ossia a recarsi in parlamento per chiedere la fiducia delle forze politiche poiché, di fatto, il governo non ha mai perso la maggioranza numerica.

Arriviamo, dunque, a mercoledì scorso, quando il Presidente del Consiglio ha ottenuto la fiducia al Senato con soli 95 sì e ben 38 no.

Presenti non votanti i Cinque Stelle, assenti Lega e Forza Italia, favorevoli Partito Democratico, Leu, Italia Viva, Azione e +Europa, Italia al centro, Italia per il futuro e Autonomie. Se il mancato sostegno da parte del M5S era prevedibile per i motivi sopraelencati, l’improvvisa uscita dalla maggioranza di Forza Italia ha causato un vero e proprio terremoto all’interno del partito, con l’addio di Gelmini, Brunetta, Carfagna e Cangini (quest’ultimo ha successivamente aderito ad Azione). Le motivazioni della scelta sono comuni per tutti e quattro gli ex forzisti, i quali hanno accusato il partito di essersi piegato alla linea dettata da Lega e Fratelli d’Italia. «Riposino in pace» è stata la risposta infelice di Berlusconi, che sulle dimissioni di Draghi ha commentato: «probabilmente era stanco e ha colto la palla al balzo per andarsene».

Tutt’altro che improvvisa è stata, invece, la scelta della Lega, che secondo molti giornalisti politici stava cercando da mesi di sfilarsi dalla maggioranza senza prendersi la responsabilità della caduta del governo. Per quanto riguarda il Pd di Letta, la presa di posizione è stata inequivocabile: «L’Italia è stata tradita» ha affermato il segretario dem, il quale ritiene che chi non ha votato la fiducia mercoledì lo abbia fatto per interessi egoistici.

A conti fatti, dunque, quel che è certo è che tra due mesi esatti saremo chiamati alle urne.

Per la prima volta eleggeremo 600 parlamentari anziché 945. Verrà applicata, infatti, la riforma costituzionale approvata tramite Referendum il 21 settembre 2020, a cui era seguita anche la ridefinizione dei collegi uninominali e plurinominali. Quel che non è certo, al contrario, è il futuro dell’alleanza M5S-Pd: data l’inconciliabilità di vedute che i due partiti hanno dimostrato di avere sul governo Draghi, infatti, sembra alquanto improbabile che il cosiddetto “campo largo” possa sopravvivere, mentre non è da escludere un’alleanza tra Pd e Azione e + Europa (Calenda) o, alternativamente, con Italia per il futuro (di Maio). Insomma, non ci resta che attendere gli sviluppi di una campagna elettorale che si svolgerà nell’arido clima (politico) italiano.

Erica Ravarelli
Studio scienze politiche a Milano ma vengo da Ancona. Mi piace scrivere e bere tisane, non mi piacciono le semplificazioni e i pregiudizi. Ascolto tutti i pareri ma poi faccio di testa mia.

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