Radici racconta fatti, personaggi e umori della storia della Prima Repubblica italiana, dal 1946 al 1994. A questo link è possibile trovare gli articoli precedenti della rubrica.
Travolta dalle rapide del progresso hi-tech, negli ultimi anni la tivù è diventata sempre più sinonimo di casa dei nonni: mobili di un legno cupo, gerani sul davanzale e a far da sottofondo la solita telenovela strappalacrime o le tappe di ciclismo che danno su Rai Sport. Non che i nonni seguano più di tanto il suo brusio: spesso resta accesa così, per compagnia.
Anche la vecchia scatola nera in salotto è stata a suo tempo un’avanguardia tecnologica: i primi modelli in Italia furono venduti negli anni Cinquanta.
Già allora, comunque, c’era chi non la scrutava con occhio benevolo. Il giornalista Ansaldo, tra le firme più note del Corriere, parlava di una nuova “età visiva” e si mostrava preoccupato per i suoi effetti collaterali: «La televisione tende a sollecitare irrazionalità e sentimento anziché ragione […] Atrofizza il cervello dello spettatore, lo rincitrullisce.»
Lasciando per il momento in un cantone i profeti dell’apocalisse mass-mediatica, un primo punto riguardava il profilo istituzionale e logistico: come inquadrare i nuovi aggeggi che iniziavano a radunare gruppetti di spettatori nei bar? Insieme alla radio, la televisione in Italia venne organizzata in un rigido monopolio statale: dalle ceneri dell’Eiar nacque nel 1954 la Rai, Radiotelevisione italiana, sottoposta al controllo del ministero delle Poste. A differenza di quanto avveniva in altri paesi (si pensi alla BBC inglese), nessun organismo garantiva l’indipendenza del nuovo ente.
D’altra parte, lo spirito da alfiere del quarto potere non era mai stato troppo nelle corde neanche della stampa italiana. Le seggiole più importanti furono regolarmente occupate da democristiani, e il tono dei notiziari, che parevano più dei bollettini di guerra, era piuttosto asettico se non moralista – la parola “divorzio”, insieme ad altri argomenti controversi, non compariva manco per sbaglio.
L’avvento dei governi di centro-sinistra avrebbe favorito un maggiore pluralismo politico.
Nascevano programmi come Tribuna elettorale, con interviste anche ai leader di opposizione. Nel 1961 fu inaugurato un secondo canale; il Tg2 di Ugo Zatterin si mostrò subito meno compassato, più aperto a tematiche sociali. Mentre si diffondevano i rotocalchi televisivi, con servizi e inchieste più ampi, il piccolo schermo diventava la lente attraverso cui le proverbiali casalinghe di Voghera potevano osservare il mondo nelle sue meraviglie e brutture, dall’allunaggio del 1969 fino all’omicidio del presidente Kennedy. Senza contare che fu proprio la tivù, ormai un passatempo individuale, tra i principali fattori di unificazione linguistica nell’Italia dei dialetti.
A inizio anni Settanta, però, l’ascesa delle sinistre e gli sconvolgimenti socio-culturali che attraversavano il Paese facevano apparire “mamma Rai” ancora troppo stretta, ingessata com’era nel suo atteggiamento filogovernativo. Nel 1975 fu quindi avviata una riforma dell’azienda: il controllo passò dal governo al Parlamento, fu creato un consiglio di amministrazione con rappresentanti di tutte le forze politiche e si decise di aprire un terzo canale orientato a sinistra. Insieme al Tg3, diretto dal comunista Sandro Curzi, prendevano il via 20 telegiornali regionali. Si puntava a garantire il pluralismo dell’informazione: non con un giornalismo indipendente e imparziale, ma tramite la lottizzazione dei programmi e delle redazioni – Rai 1, infatti, restava una roccaforte democristiana.
In seguito alla riforma, l’offerta si fece più ricca e variegata: trasmissioni sportive, rubriche di approfondimento, talk show come Bontà loro, in cui faceva capolino un ammiccante e sornione Maurizio Costanzo. Si arrivò così al 1976, altro giro di boa fondamentale in questa cronologia striminzita. Nel clima di neoliberismo crescente, una sentenza della Corte Costituzionale infranse il monopolio pubblico dell’etere: la libertà di antenna in ambito locale permise il fiorire di nuove stazioni televisive, mentre editori come Mondadori e Rusconi progettavano network privati. Nascevano così Rete 4 e Italia 1. Era la breccia che avrebbe permesso di passare dal monopolio pubblico iniziale al duopolio pubblico-privato: i primi tre tasti del telecomando, lo sappiamo tutti, sono quelli della Rai, dopo invece viene lui – ancora vivo, forse solo mummificato, comunque sia unico legittimo sovrano di Mediaset.
Il caso Berlusconi è un curioso esempio di commistione tra potere politico-economico e mass-mediatico.
Complice il vuoto legislativo apertosi in Italia dopo la suddetta sentenza, con la sua holding Fininvest (Mediaset dal 1995) espanse la propria area di dominio in tempo record. Nell’anarchia feudale imperante non fu difficile comprarsi uno dopo l’altro i vari signorotti della tivù con le rispettive Rete 4 e Italia 1; durante le prime fasi della “guerra di Segrate” contro il magnate De Benedetti, il Cavaliere aggiunse al bottino anche la Mondadori e Il Giornale di Montanelli. Nel 1990, infine, la legge Mammì non fece che confermare lo status quo, salvo aggiustamenti in nome delle norme anti-trust (la testata cartacea fu lasciata al fratello Paolo).
Agli sgoccioli di Tangentopoli, la tv privata contribuiva a inclinare il panorama televisivo italiano verso l’infotainment, miscuglio di informazione e intrattenimento: al sensazionalismo di Studio Aperto si affiancavano trasmissioni del calibro di Striscia la Notizia e Le Iene, in cui elementi di pregio come l’indifferenza verso i personaggi intervistati scadevano spesso in un qualunquismo di fondo. Senza contare i programmi spoliticizzanti e più leggeri, come quei reality show che oggi sono il tratto caratteristico di Canale 5.
Lo sviluppo istituzionale della televisione ha lasciato dietro di sé una quantità enorme di commenti, analisi teoriche e sondaggi per dare alla massa informe del pubblico la concretezza dei dati. Le polemiche non sono mancate fin dall’inizio, anche se si sono intensificate soprattutto negli ultimi decenni.
Catastrofiche le parole del politologo Giovanni Sartori: per lui il video trasformerebbe l’homo sapiens, prodotto della cultura scritta, in homo videns, che guarda il bombardamento di immagini con occhi da miope e non afferra un accidente.
Come dargli torto? Del resto, il mese scorso diverse testate hanno lanciato l’allarme: i nostri ragazzi non capiscono quel che leggono, avvertivano i titoloni indignati. Ma poi, leggono? Sono inoltre ben note le polemiche dei maturandi sul brano dell’ignoto autore estratto con periodica ciclicità al tema d’esame. Eppure l’analisi del testo, che non è un pavoneggiamento culturale ma un esercizio di empatia con lo scrittore, può essere svolta al meglio anche senza sapere se si tratta di neorealismo, poesia crepuscolare o chissà che corrente minoritaria non messa in programma dall’infido corpo docenti.
Colpa della tv-spazzatura, se le carenze non sono nello studio ma nel linguaggio, che è il presupposto di ogni comunicazione? I mass media hanno davvero tutti questi superpoteri fatali o è l’educazione penosa a cedere il passo al trash? Le orde di citrulli, si sa, c’erano pure prima che arrivasse il salone di dame tamarre e tronisti a intrattenerle dopo pranzo. E d’altronde, anche se è fastidioso ammetterlo, una mezzora di encefalogramma piatto può dare aria perfino alla più sofisticata delle materie grigie…
Bibliografia
P. Allotti, Quarto potere. Giornalismo e giornalisti nell’Italia contemporanea, Roma 2017.
J. Bourdon, Introduzione ai media, Parigi 2000.
P. Murialdi, Storia del giornalismo italiano, Bologna 1996.
E. Scarpellini, Material Nation. A Consumer’s History of Modern Italy, Oxford 2011.