Del: 12 Agosto 2022 Di: Alessandra Pogliani Commenti: 0
Da rileggere per la prima volta Libera Nos a Malo

Un’infanzia infelice qualsiasi ha ben poco da invidiare a una cattolica e irlandese: l’ha detto Frank McCourt nell’incipit del suo romanzo più celebre.

Crescere sotto al regime in un devoto paesello del vicentino, verrebbe da indovinare, sarà stato ancora peggio. E in effetti così sembra, se guardiamo la copertina del capolavoro di Luigi Meneghello: Libera nos a Malo, pagine duecento e poco più, prima edizione nel 1963.

Credenti o atei che siano i lettori, tornerà in mente a tutti l’ultimo versetto del Padre Nostro: «Liberaci dal male, amen».

Invocazione che peraltro, se la si ripulisce dagli automatismi dei salmi imparati a memoria e si fanno due conti sull’attuale degrado del genere umano, disvela più di un perché.

In ogni caso, Malo non è solo un ablativo latino da liturgia solenne: è anche una cittadina veneta a una manciata di chilometri da Vicenza.

A riprova della geniale giocosità che contraddistingue la prosa di Meneghello, il titolo trae in inganno: sia per il significato bifronte del toponimo, sia perché è un’antifrasi.

Il paesino, infatti, non appare come un cunicolo urbano in cui si nasce incagliati per sventura, aspettando che una folata provvidenziale ci trasporti altrove. I ricordi della propria infanzia a Malo sono tratteggiati e fissati con cura, senza rancore o fretta di separarsene.

Piuttosto, come osservato da Cesare Segre, con la volontà di mantenerli vivi nella coscienza collettiva, “in un misto di spregiudicatezza e pietà”. Nelle miniature provinciali, dipinte da uno humor quasi britannico, ognuno è un personaggio degno di nota, perfino lo stesso Dio che si fa vivo negli scrosci dei temporali.

Alle riflessioni sugli aspetti fondanti dell’esistenza di paese, come la quotidianità religiosa o i rapporti familiari, si alternano le microstorie dei cittadini, specie della balda gioventù. Le compagnie di amici, il bighellonare per le stradicciole, i primi approcci con una sessualità acerba di cui si sa già tutto e niente – e forse questi sono i passi più divertenti del libro.

La Norma la prendo io, tu prendi la Carla. E io prendevo la Carla, ma in segreto ammiravo la Norma. Il pallore della Norma! Quello sbiancare della pelle all’interno delle cosce. La Carla era una bella tosetta, ricciuta e ben fatta, scura di pelle, cordiale; ma la Norma era un molle tranello in cui bramavo cadere.

La scarsa distanza tra i gangli di vita attorno a cui si snodano le giornate di Malo rende tutto più vivido, movimentato. Come se ci si trovasse di fronte a un palcoscenico allestito ad arte, scrive l’autore. O forse è solo la prosa di Meneghello, eccellente maestro a livello stilistico, a restituirci il nitore di contorni e le tinte vivaci che illuminano gli archivi della memoria.

Un aspetto molto interessante dell’opera, come rilevato dalla critica, è proprio il suo vocabolario: modi di dire, proverbi e singoli lemmi in dialetto impreziosiscono il testo a ogni pagina.

Non è virtuosismo puro, e nemmeno una scrittura di ricerca come quella di Gadda, in cui le parlate rurali servono a potenziare il valore euristico della lingua. Per Meneghello, che a Malo ci è cresciuto, il dialetto è stata la lingua madre, l’idioma ancestrale a cui appartengono i primi nomi che si danno alle cose.

Un amalgama di assonanze, impressioni e simboli che si mischiano a livello prelogico, come se provenissero diretti dall’animo. L’italiano, al contrario, è il gergo ufficiale che si impara a scuola, intriso di ideologia fascista e disciplina ferrea, arido e spento.

L’umorismo di Meneghello deriva pure dal cozzare, nelle battute dei personaggi, di questi due sistemi differenti: il dialetto sguscia fuori dalle costrizioni sintattiche della lingua borghese, la rimaneggia a suo modo, qualche volta la storpia. Il vernacolo è identità, evocazione: è il cosmo visto cogli occhi della gente di allora.

Presenza costante nel racconto, mai oppressiva, la voce dell’autore bilancia ogni modulazione lessicale con una padronanza tale che a leggerlo, come accade coi grandi pianisti quando li si vede improvvisare, ci si dimentica che il divertimento glottologico è permesso solo a chi ne conosce le regole a menadito.

Si è molto distanti dal linguaggio diffuso di oggi, alla cui miseria appiccichiamo il bollino di inclusività giusto per convincerci delle nostre capacità espressive. Che sono, nei casi migliori, ridotte a uno o due sinonimi e al corrispettivo inglese.

E i dialetti? Chi li saprà ancora, tra qualche anno?

Sfogliare le pagine di Luigi Meneghello è un piacere, e insieme un esercizio di lettura memorialistica di cui la lingua è il fulcro. L’impianto è autobiografico, ma poi la tela si estende, i modi allocutori pure, e Malo si innalza nella sua complessità come uno di quei graziosi comuni medievali pitturati da Ambrogio Lorenzetti.

Libera nos a Malo è, in ultima analisi, un omaggio al plurilinguismo: un pasticcio di suoni che cela invece lo sforzo enorme dell’esattezza descrittiva – nella speranza di narrare un mondo, magari sognarne qualcun altro, e intanto salvarli tutti dal gorgo dell’amnesia.

Alessandra Pogliani
Ostile al disordine e col cruccio di venire a capo dell’anarchia del mondo, per contrappasso nella vita studio storia.

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