Del: 3 Agosto 2022 Di: Giulia Perelli Commenti: 0
La discriminazione etnica nelle università USA

La Corte Suprema statunitense è oggi a maggioranza conservatrice. E ce ne siamo accorti con l’inquietante ribaltamento della sentenza Roe vs Wade. L’aborto, tuttavia, non è l’unico diritto che rischia di essere neutralizzato: la CS potrebbe, in un futuro più o meno prossimo, dichiarare l’ammissione ai college su base razziale incostituzionale. 

Nel 1965, per combattere la forte discriminazione nei confronti delle minoranze presenti sul suolo americano, fu introdotta una forma particolare di azione positiva o affirmative action che consiste nell’agevolazione dell’accesso alle università per tali categorie, conciliando così l’uguaglianza de iure con l’uguaglianza de facto, al fine di creare un corpo studentesco e una classe dirigente diversificata che rappresentasse la grande multietnicità degli US. 

Nel 1971, con il caso Griggs, iniziarono a delinearsi alcune linee guida rispetto alle modalità di applicazione di questo strumento: il loro utilizzo sarebbe legittimo non solo in presenza di discriminazioni intenzionali ma già a partire da situazioni oggettivamente discriminatorie. Ciò provocò un aumento nell’uso dei preferential treatment, limitato dall’intervento della Corte Suprema nel caso Bakke del 1978: erano state istituite misure preferenziali di accesso che garantivano un determinato numero di posti alle minoranze razziali.

Il giudice Powell, in questo contesto e nel successivo caso Grutter vs Bollinger si esprime a favore dell’applicazione di positive actions di questa natura solo in seguito all’applicazione di uno strict scrutiny test:

tutte le operazioni basate su etnia e “razza” sono da considerarsi sempre sospette, anche quando sono volte a raggiungere fini meritevoli. La loro legittimità deve essere subordinata al perseguimento di un compelling interest (in questo caso la diversificazione del corpo studentesco e la possibilità di accesso alle forme educative superiori) e tutti gli strumenti utilizzati devono rispondere al criterio di stretta adeguatezza; perciò, lo scopo non deve poter essere raggiunto tramite modalità meno invasive – ad esempio la valutazione di ciascuna domanda di ammissione. 

La caratteristica essenziale delle affirmative actions è la loro temporaneità: sono utilizzabili solo fintanto che sono necessarie; in passato è spesso stato elogiato un modello di giustificazione di questi strumenti di tipo “risarcitorio”, in modo che siano applicabili a tutte quelle minoranze che hanno subito profonde discriminazioni nel passato e per le quali l’uguaglianza de iure non sia risultata sufficiente. 

Il problema, oggi, è stabilire se questo tipo di interventi sia ancora utile e sostenibile o crei ulteriori problemi di discriminazione razziale: di recente alcuni studenti asiatici hanno lamentato un “ritorno al favoritismo razziale” dettato dalla difficoltà nell’accesso alle università americane in situazioni di confronto con studenti afroamericani dotati degli stessi meriti. 

La situazione è tesa e le opinioni sono contrastanti, ormai solo il 20% della popolazione ritiene che questi corridoi d’accesso siano utili e costituzionali, ed è giusto chiederselo. 

Di fronte a questa tipologia di interventi il sospetto e l’attenta valutazione sono l’unica modalità di assicurarne un buon utilizzo, per formulare dei limiti e dei presupposti di utilizzo, al fine di evitare che si trasformino in ulteriori fonti di discriminazione (il fenomeno della reverse discrimination). 

Alcuni sostengono che ormai queste siano solo “derive vittimistiche”, come la deputata della California Young Kim, di origini sudcoreane che su Fox News ha dichiarato, in puro stile American Dream:

Dobbiamo giudicare gli individui in base ai loro meriti, e non possiamo guardare alla razze o all’etnia solo per soddisfare le minoranze. Tutti hanno bisogno di lavorare sodo, e questa è l’America. Sono un’immigrata. Quando sono venuta negli Stati Uniti da giovane, non parlavo una parola di inglese, ma questo non mi ha impedito di lavorare sodo. 

D’altra parte è inutile negare i fatti: le statistiche suggeriscono che il tasso di disoccupazione sia nettamente superiore in afroamericani e latini piuttosto che nella popolazione bianca, mentre il reddito annuo delle famiglie afroamericane si colloca all’ultimo posto, dopo asiatici, bianchi e latini.

Il costo delle università americane è notoriamente molto alto, aggirandosi intorno ai 30.000 dollari all’anno. Con queste informazioni si intuisce la necessità di assicurare la formazione anche a studenti appartenenti alle minoranze ancora svantaggiate, per poter creare una realtà dove tutti possano accedere all’istruzione che deve essere un diritto e non un privilegio.

Sembra quindi che lo strumento delle affirmative actions debba ancora maturare, almeno finché non saranno colmate le enormi disparità economiche tra le varie componenti della popolazione americana.

Giulia Perelli
Vivo di viaggi, di libri e di esperienze. Scrivo di tutto quello che vedo e sono un moto perpetuo. Sono una studentessa di giurisprudenza e di tutto quello che mi capita di voler imparare. Sono l’artista meno artista di sempre. Nella vita devo solo poter raccontare, parlare e fotografare.

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