Del: 21 Agosto 2022 Di: Giulia Ariti Commenti: 0
Radici. La tradizione della fiamma tricolore

Radici racconta fatti, personaggi e umori della storia della Prima Repubblica italiana, dal 1946 al 1994. A questo link è possibile trovare gli articoli precedenti della rubrica.


Risale al 1952 l’approvazione della Legge Scelba, costitutiva di 10 articoli attuativi della XII disposizione della Costituzione Italiana, che recita: «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. Sono stabilite con legge limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista». 

L’articolo 4, com’è noto, è dedicato al reato di apologia del fascismo. 

Non tutti sanno però che, originariamente, la legge Scelba rendesse perseguibile penalmente qualunque difesa elogiativa al regime e alla figura di Benito Mussolini. 

Fu una sentenza della Corte costituzionale del 1957 a chiarire il significato dell’articolo 4: «l’apologia del fascismo, per assumere carattere di reato, deve consistere non in una difesa elogiativa, ma in una esaltazione tale da poter condurre alla riorganizzazione del partito fascista. Ciò significa che deve essere considerata non già in sé e per sé, ma in rapporto a quella riorganizzazione, che è vietata dalla XII disposizione».

Uno dei motivi di chiarimento di questo punto della legge Scelba furono le animate polemiche del Movimento Sociale Italiano, partito fondato nel 1946 da ex-esponenti del regime italiano, tra cui Giorgio Almirante e Pino Romualdi. L’accusa che costoro portavano avanti nei confronti della Legge Scelba, nella sua integrità, era di essere anticostituzionale: le motivazioni sono quelle a cui anche noi, oggi, siamo abituati, ossia l’impedire il pensiero libero garantito dai principi fondamentali della Costituzione. 

La Corte Costituzionale ha dovuto garantire in più sedi la costituzionalità della legge come una necessità della democrazia di tutelare sé stessa da aspirazioni dittatoriali. 

Nel 1958, ad esempio, diede interpretazione dell’articolo 5, che proibisce manifestazioni che richiamino al fascismo, considerando legittime «manifestazioni come il canto degli inni fascisti, poiché si ha ragione di ritenere anche che queste manifestazioni di carattere apologetico debbano essere sostenute […] da due elementi della idoneità ed efficacia dei mezzi rispetto al pericolo della ricostituzione del partito fascista». 

Il significato è chiaro: qualunque articolo della legge Scelba è applicabile solo in caso sussista un reale pericolo di ritorno al totalitarismo. In particolare, qualunque partito può dichiararsi di ispirazione neofascista, senza, però, che questo implichi tendenze antidemocratiche.

Ecco perché, malgrado i suoi esponenti fossero accusati di apologia del fascismo quotidianamente, il Movimento Sociale Italiano proseguì la sua corsa, anche dichiarandosi prima neofascista, poi post-fascista. Il richiamo fu esplicitato nel simbolo: la fiamma tricolore, celebre per ardere sulla tomba di Benito Mussolini, posata su un trapezio contenente la sigla del partito. Anche al tempo le polemiche non furono poche: fu Cesco Giulio Baghino, membro del movimento, a chiarire che tale trapezio non rappresenta la tomba di Mussolini, come tutti ritenevano, bensì era un semplice spazio grafico per inserire la scritta del movimento. 

Dal momento della sua nascita nel 1946 fino al suo scioglimento ufficiale nel 1994, il Movimento Sociale Italiano cambiò più volte direzione del suo pensiero. 

Al momento della prima riunione dei partiti neofascisti, il Fronte dell’Italiano, il Movimento Italiano di Unità Sociale, il Fronte del Lavoro e il Gruppo reduci indipendenti, per la stipula dell’atto costitutivo il 3 dicembre 1946 si dichiararono «in opposizione al sistema democratico per mantenere viva l’idea del fascismo». Con la segreteria di Augusto De Marsanich, tuttavia, venne coniata l’espressione: «Non rinnegare, non restaurare», ad indicare la non volontà di ricostruire il regime, ma solo di portarne avanti i principi ispiratori. 

Nei fatti, però, non fu sempre coerente. Nel 1965, infatti, fu isolato dalla scena politica proprio per le proprie ideologie e dichiarato fuori dall’arco costituzionale, espressione con cui si indicano i partiti che avevano preso parte alla Costituente: i principi antifascisti della Costituzione, infatti, erano rigettati dall’MSI. 

Fuori dalla scena politica nazionale, nel 1970 il Movimento Sociale ritrovò posto al centro della scena con i fatti di Reggio: la città insorse contro la decisione di affidare a Catanzaro la provincia. Una manifestazione inizialmente sostenuta anche dalle sinistre, ma che presto vide l’insediamento dell’estrema destra nella folla, in particolare quando Ciccio Franco, esponente MSI, utilizzò il motto «Boia chi molla». Presto fu organizzata una sollevazione di estrema destra, con barricate e scontri con la polizia – la risoluzione avvenne solo con l’intervento dei militari, che si servirono persino di carri armati. 

La fine del Movimento Sociale Italiano venne con la fine della Prima Repubblica: con la Svolta di Fiuggi, il segretario Gianfranco Fini portò la fine del partito e la nascita di Alleanza Nazionale, in cui ogni riferimento all’ideologia fascista fu esplicitamente abbandonato. 

Rimase, però, nel simbolo, la fiamma tricolore, eredità di una tradizione giunta fino al 2012 con la fondazione di Fratelli d’Italia.

Giulia Ariti
Studentessa di Filosofia che insegue il sogno del giornalismo. Sempre con gli occhi sulla realtà di oggi e la mente verso il domani.

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